Foreign fighters: come i jihadisti riescono a rientrare in Europa

Secondo gli ultimi dati ufficiali forniti dal governo francese, nel 2016 le persone arrestate in Francia perché collegate o sospettate di essere vicine ad ambienti jihadisti sono state 418. Il ministro degli Interni francese, Bruno Le Roux, ha dichiarato che «dal massacro del 14 luglio a Nizza alla fine del 2016 sono stati sventati 13 attentati in Francia e molti altri nei primi mesi del 2017».

Arresti, perquisizioni e chiusure di centri islamici radicali si susseguono anche nel resto d’Europa, e le indagini si concentrano anche su quei gruppi che fanno della predicazione per le strade (Dawa street) la loro missione.
Dopo Germania e Austria, adesso anche altri Paesi europei stanno valutando i provvedimenti da assumere per mettere fuori legge i movimenti che rimandano al predicatore Ibrahim Abou Nagie, “Die Wahre Religion” e il “LIES!”, e “We love Muhammad” del predicatore turco Bilal Gümüs.

Se le operazioni militari in Siria e Iraq sono entrate in una fase di stallo, l’Europa resta l’obiettivo privilegiato dei gruppi salafiti violenti i quali, grazie a imponenti finanziamenti provenienti dai Paesi del Golfo Persico e dalla Turchia, puntano a prendere il controllo delle moschee inneggiando allo scontro tra civiltà e persuadendo gli elementi più estremi ad arruolarsi come “soldati di Allah”. Le recenti operazioni antiterrorismo e gli arresti effettuati in Germania, Austria, Belgio, Spagna, Italia, Francia e Inghilterra, non solo hanno impedito nuove stragi con centinaia di vittime ma dimostrano che il virus salafita che infetta il mondo islamico non si ferma, muta a secondo delle esigenze e del Paese in cui intende attecchire sfruttando alla perfezione buonismo e assistenzialismo, “mali profondi” che affliggono le principali democrazie europee.

I jihadisti europei conoscono alla perfezione anche le difficoltà esistenti nel vecchio continente nel trovare strategie comuni in ambito di sicurezza in un’Europa che, grazie all’abbattimento fisico delle frontiere, appare come una grande prateria in cui delinquere e dove, con po’ di fortuna, ci si può spostare da Milano a Parigi a Berlino in macchina senza incontrare un solo controllo di polizia.

A questo rischio si aggiungono le migliaia di foreign fighters europei che prima o poi torneranno nei loro Paesi d’origine. A preoccupare di più sono i combattenti caucasici. A partire dal 2012, a un anno dall’inizio della crisi siriana, almeno 3.000 miliziani provenienti da Cecenia, Georgia, Daghestan, Inguscezia e della Kabardino-Balkaria, stretti nella morsa delle forze di sicurezza russe hanno lasciato il Caucaso per tentare nuove avventure e fortune militari nel “Siraq”.

Uomini addestrati alla guerra pronti a tutto, come Tarkhan Tayumurazovich Batirashvili, meglio conosciuto come Abu Omar al-Shishani che fino alla morte, confermata dallo Stato Islamico il 14 luglio del 2016, è stato uno dei consiglieri militai più vicini al Califfo Abu Bakr Al Baghdadi e uno dei capi militari di più alto livello di ISIS. Il suo posto è stato preso da Gulmurod Khalimov, originario del Tagikistan, che per un periodo venne addestrato dall’FBI attraverso la società americana Blackwater, attiva in Iraq e nelle ex repubbliche sovietiche dove fornisce contractors e servizi di intelligence. Nel “congedarsi” dai suoi addestratori, Khalimov avrebbe detto: «Vi mostrerò quanto vi sono grato per avermi addestrato. Mi avete addestrato per essere un elemento scelto. Ci avete dato milioni di dollari in attrezzature, giubbotti antiproiettile, caschi speciali, maschere, visori ed armi di ultima generazione, avete investito le vostre risorse per farci diventare esperti nell’antiterrorismo e nella guerriglia. Il vostro ambasciatore in Tagikistan (degli Stati Uniti, ndr) nel 2013, vantava con orgoglio la mia unità definendola coma la migliore risposta al terrorismo. Ebbene, il comandante ero io ed utilizzerò le capacità che mi avete donato per massacrarvi».

Nei prossimi mesi più la tenaglia militare si stringerà su Raqqa e Mosul, più i “soldati di Allah” cercheranno di tornare nei Paesi d’origine. Il generale Mario Mori, ospitato il 3 febbraio nel Canton Ticino per la presentazione del suo ultimo libro Oltre il terrorismo, non ha fatto mistero dei propri timori in merito al rischio di un’ondata di jihadisti in ritorno in Europa: «La minaccia non è destinata a scomparire, se è vero che l’ISIS si sta indebolendo sempre di più e rimane in piedi solo a causa dei conflitti tra potenze, una sua eventuale e probabile sconfitta non segnerà la fine degli attentati. Questo sia a causa del ritorno in Occidente dei cosiddetti foreign fighter, sia a causa del seme ideologico ormai radicato del revanscismo arabo».

Per i jihadisti di ritorno reperire i documenti d’identità per far rientro in Europa, negli Stati Uniti o in altri Paesi occidentali è diventato sempre più “semplice” negli ultimi anni. Secondo i servizi segreti francesi e italiani, esiste infatti una vera e propria industria che è in grado di fornire passaporti di ogni tipo ai jihadisti di ritorno in Europa. Una struttura su cui sta indagando un gruppo di lavoro specifico operativo principalmente in Grecia per riconoscere i documenti non originali lungo la frontiera con la Turchia.

Solo in Svezia sono “spariti” negli ultimi quattro anni 177mila passaporti definiti «mancanti». Il tariffario per riacquistare un passaporto al mercato nero varia dalle 400 euro se il documento è di un Paese extra UE fino a 850 euro se il documento è invece di uno Stato dell’UE. I passaporti falsi vengono fabbricati in Turchia, Macedonia, Kosovo e in altri Paesi dei Balcani e messi in commercio sul “deep web”, ovvero l’insieme delle risorse informative del World Wide Web non segnalate dai normali motori di ricerca.

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