Caduta e misteri di Raqqa ( dal Corriere del Ticino del 25 Ottobre 2017)

Dopo 1.211 giorni la città siriana di Raqqa capitale dello Stato islamico è stata liberata; la battaglia è costata almeno 3.000 morti. Alle milizie curde (YPG) sostenute e armate dagli USA ora manca solo di «terminare il lavoro» andando casa per casa alla ricerca degli ultimi jihadisti nascosti in città. Inutile scandalizzarsi, la guerra è anche questo. Nonostante l’entusiasmo per l’avvenuta liberazione è bene non farsi trascinare dall’ottimismo e dalle euforiche narrazioni giornalistiche perché gli ultimi irriducibili «soldati di Allah» (300-500 unità) rimasti a Raqqa con le loro famiglie, venderanno cara la pelle. La maggioranza di loro è composta da combattenti stranieri che bruciarono i loro passaporti all’epoca della fondazione del «Dawlat Al Islamyya, donne e uomini attratti dallo «Stato perfetto» che avrebbe dovuto essere la prima pietra della riscossa islamista globale oggi ridotta a un cumulo di macerie. Tra coloro che sono ancora nella città siriana ci sono i terribili combattenti ceceni induriti da mille battaglie, i turkmeni, i tagiki, gli uzbeki e qualche pezzo del battaglione balcanico comandato un tempo dal «macellaio dei Balcani» Lavdrim Muhaxheri-Abu Abdallah al-Kosovi «terminato» da un drone americano nel giugno scorso. Tra loro anche diversi europei e in particolare belgi e francesi e qualche inglese, tutti rimasti a Raqqa per immolarsi in nome del Califfo fantasma. Lui, che proprio fesso non è, nel frattempo è fuggito da mesi, c’è chi dice nelle aree desertiche del Mali, chi nella zona di Sabrata (Libia): posti ideali dove, a causa della destabilizzazione in atto anche grazie alle autolesionistiche politiche occidentali, potrebbe far risorgere il «Califfato 2.0». Nel «Siraq» dalla proclamazione dell’ISIS del giugno del 2014, sono accorsi per servire sotto le bandiere nere tra i 30.000 e i 40.000 «foreign fighter» dei quali secondo i servizi segreti americani, almeno 20.000 sarebbero morti. A combattere ci andarono giovani estremisti islamici e convertiti ma anche sbandati di ogni tipo e da ogni parte del mondo, dalle Filippine al Caucaso, dalla Cina e persino dalla «perla dei Caraibi» Trinidad e Tobago. Tutti pronti a immolarsi in nome del loro Profeta dopo essersi radicalizzati sul web oppure grazie ai tanti «predicatori del male» che girano indisturbati nelle moschee e non solo in Europa. Oggi di questi combattenti restano solo le fotografie e i video nei quali entusiasti con il dito puntato al cielo invitavano i connazionali a seguirli nello «Sham» oppure mentre minacciavano i loro Paesi dopo aver decapitato o tagliato la gola a qualche malcapitato cooperante o incauto giornalista. Dove sono finiti i «mujaheddin» europei che non sono rimasti intrappolati a Raqqa e prima ancora a Mosul? Secondo il Pentagono circa il 30%-40% di coloro che erano partiti per fare la «jihad» sono tornati a casa in varie maniere, c’è chi è rientrato prima della chiusura della permeabile frontiera turca e chi ha sfruttato la rotta balcanica. Tornati a casa molti di loro hanno chiuso la parentesi guerriera passando anche per i vari centri di de-radicalizzazione (specie in Francia e nei Paesi del Nord Europa) sui quali esiste un punto interrogativo grande come una casa viste le enormi risorse investite e gli scarsissimi risultati ottenuti. Di sicuro alcuni di coloro che sono tornati non si sono rassegnati a una vita normale, a un’esistenza fatta di onesto lavoro e di convivenza civile, fatto che inquieta tutte le agenzie di intelligence europee che temono che questi invasati possano entrare in gruppi di predicazione ad esempio quelli recentemente vietati dal Dipartimento delle istituzioni del nostro Cantone, o che passino direttamente all’azione violenta. Sempre secondo l’intelligence USA a capo dell’ultimo bastione dell’ISIS a Raqqa ci sarebbe stato «Abu Ahmad» alias di Oussama Atar cittadino belga-francese considerato da molti come la vera mente degli attacchi a Parigi nel 2015 e di Bruxelles nel 2016. Oussama Atar, che è stato nelle prigioni gestite con i metodi che purtroppo si conoscono dalle forze armate statunitensi di Abu Graib, Camp Cropper e Camp Bucca, è il cugino dei fratelli Ibrahim e Khalid El Bakraoui che si sono fatti esplodere a Bruxelles, il primo in aeroporto, il secondo nella stazione della metropolitana di Maelbeek il 22 marzo 2016. Tra le molte cose che non tornano in questa «liberazione d’autunno» di una città che ha visto ogni genere di orrori ben raccontati nel libro scritto da un giovane siriano e magistralmente curato dal giornalista italiano Giampaolo Cadalanu «I diari di Raqqa. Vita quotidiano sotto l’ISIS», si registra l’accordo tra i liberatori curdi e i jihadisti siriani lasciati andare con tanto di pullman «per evitare inutili spargimenti di sangue».

Dove li hanno portati e chi ha avallato un simile accordo? Che fine faranno questi soldati del Califfato nero? Saranno liberi di aderire a qualche nuovo gruppo islamista dell’area oppure tra qualche giorno saranno trovati in qualche fossa comune o li vedranno galleggiare nel fiume Tigri? C’è però anche un’altra possibilità molto pericolosa per l’Europa che passa dai barconi pieni di disperati in partenza dalla Libia ma non solo. In particolare ci sono timori per la Libia che viene considerata da Abu Bakr Al Baghdadi l’hub ideale non solo per portare in Europa jihadisti mischiati a disperati ma anche per portare il caos nella fragile Tunisia dalle quale sono partiti più di 5.000 «foreign fighters», e nel Marocco patria di 2.000 «soldati di Allah». L’impressione che coglie chi guarda a tutto questo con disincanto e poca fiducia negli esseri umani è che la liberazione di Raqqa dove per 1.211 lunghissimi giorni è calata la notte, sia solo una pagina di questa triste, lunga e sanguinosa storia destinata a non finire certo qui.

 

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