Diciotto mesi di carcere parzialmente sospesi, 6 mesi da scontare e 12 sospesi con la condizionale per un periodo di prova di 3 anni. È questo il verdetto del processo celebrato qualche giorno fa presso il Tribunale penale federale (TPF) di Bellinzona ad una cittadina svizzera di 31 anni accusata «di viaggi con finalità jihadiste». Alla donna sono stati ritirati fino al prossimo 14 marzo il passaporto, la carta di identità, la patente e dovrà presentarsi ogni settimana alla polizia del Canton Zurigo. È stata riconosciuta colpevole di essere «simpatizzante dei gruppi al Qaeda e Stato islamico, in violazione alla legge federale». Durante tutto questo periodo la 31enne resterà in libertà vigilata e dovrà sottoporsi a un trattamento psicologico obbligatorio che sarà pagato dai contribuenti svizzeri che la mantengono già da tempo essendo una disoccupata che passa le sue giornate sul web. Esattamente come faceva al tempo della sua radicalizzazione avvenuta ascoltando da sola, visto che il marito l’aveva lasciata i sermoni del convertito-predicatore salafita tedesco Pierre Vogel.
La donna presentatasi in tribunale a capo coperto ha mantenuto l’atteggiamento sprezzante mostrato in precedenza rifiutandosi di rispondere alle tante domande sulla sua vita. Il giudice S. Heimgartner avrebbe voluto sapere come sia stato possibile che una ragazza di Winterthur per giunta istruita (bachelor in economia aziendale), dopo la conversione all’islam nel 2009 e il matrimonio con un egiziano, si sia radicalizzata e abbia aderito allo Stato islamico.
La sua è una storia incredibile, nel 2015 vende tutto quello che ha in modo da recuperare i soldi che le servono per finanziare il viaggio per sé e per il bambino nato dalla relazione con un egiziano, fino alla Siria. Il piano prevedeva il volo dall’Egitto per la Grecia con tappa a Creta e da li il trasferimento ad Atene penultima tappa prima di arrivare in Siria. Il suo sogno si è infranto al confine greco-turco il 2 gennaio 2016 con l’arresto da parte delle autorità di Atene. Storia finita? Nemmeno per sogno, insieme al figlioletto tenterà altre due volte di entrare senza successo in Siria. Torna quindi in Svizzera l’11 gennaio 2016 e la Polizia la ferma appena scende dall’aereo e le cose che dice sono: «Raggiungere lo Stato islamico rappresenta l’unica possibilità per vivere da musulmana devota seguendo la legge di Allah» e che «la Svizzera è in lotta contro l’Isis ed è giusto che venga colpita da un attentato».
Dopo averla sentita la rilasciano e le ritirano il passaporto in attesa del processo. Che le pene previste dal codice penale svizzero siano ridicole nei confronti di chi aderisce, recluta o si adopera per le organizzazioni terroristiche islamiche è da tempo una certezza. Il 20 agosto scorso un cittadino svizzero di origine turca è stato condannato a soli due anni e sei mesi di carcere da parte del Tribunale penale federale di Bellinzona. Grazie al patteggiamento e alla carcerazione preventiva dopo qualche giorno ha salutato tutti ed è tornato in libertà tra lo sconcerto generale.
A proposito del pericolo che l’islam radicale rappresenta c’era molta attesa per la presentazione del «Piano d’azione nazionale per prevenire e combattere la radicalizzazione e l’estremismo violento». Documento di 44 pagine arrivato dopo che i Servizi Segreti della Confederazione (SIC) hanno reso noti alcuni dati non certo rassicuranti vedi le 100 persone monitorate sul territorio nazionale perché ritenute pericolose. La sorpresa a pagina 7; «tenendo conto delle valutazioni degli esperti e degli altri lavori in corso, si è per esempio rinunciato a elaborare misure relative all’introduzione di un registro nazionale dei detenuti e al disciplinamento della trasparenza finanziaria delle comunità religiose». Nessun accenno alle numerose fondazioni e Ong islamiche. Maggior controllo sugli imam itineranti? Nessuno. Sono in molti a pensare che sia vero come scritto dagli esperti che hanno redatto il piano buonista, «che la partecipazione e la co-decisione favoriscono le decisioni positive, rafforzano il senso di appartenenza alla società e mitigano o eliminano le paure, le incertezze e le tendenze discriminatorie». Ma ci sono anche coloro che temono che nascondere la polvere sotto il tappeto aspettando tempi migliori non sia più possibile, nemmeno per la Svizzera.