Meglio in galera che in Marocco (da “Libero” 20.01.2018)

Dell’ex leader del dissolto gruppo salafita belga Sharia4Belgium Fouad Belkacem – Abu Imran, non si avevano più notizie dall’epoca del suo matrimonio in carcere (inizialmente non consentito per motivi di sicurezza) nel giugno del 2017 con una connazionale belga-marocchina, madre dei suoi figli. Oggi l’ex 35enne venditore di auto, ex trafficante di droga autonominatosi imam che mise a ferro e fuoco il Paese insieme a decine di giovani sbandati poi partiti per il «Siraq», langue in un carcere di massima sicurezza dal 2014 e dove resterà almeno fino al 2024 per attività legate al terrorismo. Le misure di sicurezza riservate a lui sono altissime, si teme il pericolo di fuga durante le traduzioni in tribunale, o che venga ucciso in carcere.

IL PROCESSO DI ANVERSA

Qualche giorno fa a porte chiuse, è stato ascoltato ad Anversa dalla Corte d’Appello nell’ambito del procedimento penale promosso dalla Procura Generale che intende revocargli la nazionalità con conseguente espulsione verso il Marocco suo paese d’origine. L’ufficio del pubblico ministero sostiene che Belkacem costituisca ancora una «minaccia permanente alla sicurezza pubblica e che abbia violato gravemente i suoi obblighi di cittadino belga tanto che la nazionalità gli deve essere revocata». È molto probabile che una volta giunto in Marocco, oltre a scontare una vecchia condanna per droga, qualcuno gli potrebbe chiedere cosa intendesse dire quando a proposito di Re Mohammed VI affermò che «il re del Marocco, il suo Paese e il suo governo possono andare al diavolo» e il motivo delle minacce di morte reiterate fatte all’allora premier Abdelilah Benkirane. Chi conosce il Marocco sostiene che quanto detto da Belkacem contro le autorità potrebbe rendergli la vita in carcere, in particolare l’ora d’aria da trascorrere con gli altri detenuti, molto vivace. Dell’aggressivo predicatore salafita che minacciava politici e giornalisti e che voleva creare «l’Emirato del Belgio» i giudici hanno visto solo la barba incolta e l’abbigliamento islamico. In aula ha preso la parola dicendosi «pentito delle sue azioni» e il suo avvocato Liliane Verjauw al termine dell’udienza ha dichiarato alla stampa: «Il mio cliente ha espresso il proprio rammarico e ha riconosciuto che di essersi spinto troppo lontano con i suoi comportamenti. Si sente belga e vorrebbe restare in Belgio anche perché non ha più legami con il Marocco». Pentimento sincero? Più credibile da parte di un personaggio dello spessore di Belkacem è il ricorso alla «taqiyya», tecnica di dissimulazione che si usa per infiltrarsi nel «Dar-al-Harb» (territorio non islamico) in modo da arrivare all’obbiettivo vero: la conquista. Per la sentenza i tempi non saranno brevi, ma la recente riforma del codice penale consente di togliere la cittadinanza a chi l’ha acquisita dopo il 12°anno di età e si è reso colpevole di reati terroristici. Spinge per questa soluzuone Theo Francken, segretario di Stato per l’asilo e la migrazione, che non ha mai nascosto la volontà di espellere prima possibile Belkacem una volta privato del passaporto belga.

L’ESPANSIONE JIHADISTA

Mentre il processo segue il suo iter, il governo di Bruxelles ha reso noto che nel 2017 sono stati aperti 802 fascicoli per terrorismo, un lavoro enorme per strutture risicate nei numeri e nella formazione specifica, che si somma alle enormi e note difficoltà di polizia e servizi segreti nel contrastare un fenomeno sottovalutato per decenni. Passeggiando per le vie di Molenbeek, quartiere di Bruxelles abitato da 100mila persone in maggioranza provenienti da Paesi arabi e dalla Turchia, si fatica a tenere il conto di moschee e associazioni islamiche che spesso hanno fatto da cassa di risonanza agli islamisti. Lo stesso accade in un altro quartiere della capitale, Schaerbeek, dove il 40% dei 130mila abitanti è musulmano. Così in tutto il Belgio grazie a precise responsabilità politiche, sono nate «isole» autoreferenti dalle quali sono partiti alla volta del «Siraq» almeno 500 foreign fighters.

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