Il Sultano tra la Guerra e l’Adulterio (Corriere del Ticino 1°Marzo 2018)

Qualche giorno fa è iniziata la seconda fase della guerra in Siria e il rischio che il conflitto si allarghi è sempre più concreto e i morti si contano a centinaia. Tutto accade mentre i negoziati di pace, quello promosso da Turchia, Russia e Iran, e quello di Ginevra proposto dalle Nazioni Unite sono bloccati. La Russia, che si era lanciata in grandi annunci sulla fine della guerra e sulla vittoria conseguita sul campo, può esser contenta della presenza delle milizie di Assad ad Afrin (Siria), in quanto più restano lì e più i turchi aumenteranno la portata dei loro attachi con il risultato atteso, ossia che questi ultimi e gli americani cominceranno a litigare. Non solo Afrin viene utilizzata come campo di battaglia ma anche il sud della Siria, nell’enclave di Ghuta (100.000 abitanti) dove èpresente un piccolo gruppo di irriducibili ribelli sunniti anti-Assad finanziati e (molto) ben armati dall’Arabia Saudita. Il dittatore siriano, che li conosce molto bene e li teme, ha mandato sul campo le divisioni corazzate «Tigri» e «Quarta»: il fiore all’occhiello del suo esercito.

Gli Stati Uniti del presidente Donald Trump, sempre più nella bufera per la vicenda del Russiagate, invece hanno scelto il basso profilo (sperando che non arrivi un tweet presidenziale), anche perché nella «guerra segreta» che si combatte in parallelo, le loro forze speciali hanno eliminato alcuni «volontari russi», cioè mercenari addestrati alla perfezione che Mosca utilizza in Medio Oriente e in Libia in soccorso al generale Haftar e che si sono «distinti» anche in Ucraina. In merito alla crisi siriana c’è da sperare che l’esercito di Assad non sconfini in Turchia. A quel punto a Erdogan, che detesta la democrazia ma sa come servirsene, basterebbe invocare l’articolo 5 dell’Alleanza Atlantica per far intervenire la NATO, che si ritroverebbe risucchiata in quell’inferno.

Cosa sta accadendo e cosa potrebbe succedere nel breve periodo tra Israele, la Siria e l’Iran merita un approfondimento successivo.

Tornado ad Ankara prosegue il processo di islamizzazione della società turca promosso dal sultano Recep Tayyip Erdogan. Alcuni giorni fa i fratelliAhmet e Mehmet Altan (figli dell’intellettuale turco Cetin Altan) e altri quattro giornalisti sono stati condannati all’ergastolo con l’accusa «di aver cercato di sovvertire l’ordine costituzionale attraverso l’appartenenza all’organizzazione Feto». Niente di nuovo: è l’organizzazione di Fethullah Gulen, anziano ex imam autoesiliatosi negli USA che un tempo era amico e alleato dell’attuale presidente turco. Al corrispondente del quotidiano tedesco «Die Welt» Deniz Yücel, finito in carcere un anno fa con l’accusa di terrorismo, è andata meglio invece. Infatti, dopo le incessanti pressioni della comunità internazionale, e in particolare del Governo tedesco, è stato scarcerato.

Intanto i sei giornalisti in carcere si vanno ad aggiungere alle circa 51.000 persone arrestate con l’accusa di «golpismo» o di associazione terroristica (non importa se di matrice gulenista o curda). Ci sono poi 134.000 persone che hanno perso il loro lavoro in seguito al golpe fallito del luglio 2016. Cosa accadde per davvero quella notte resta attualmente un mistero, forse anche perché dei giornalisti che potrebbero raccontare tutta la storia ne sono rimasti pochi.

L’ultima dichiarazione del dittatore di Ankara, che vorrebbe entrare in Europa «senza condizioni», è sul reato di adulterio che in Turchia è stato abolito nel 1996 con sentenza della Corte costituzionale: «Ho fatto un errore ad accantonare nel 2004 il progetto di legge di reintroduzione del reato di adulterio. Lo feci per poter avviare i negoziati di adesione all’Unione europea ma ora credo che dovremmo valutare di introdurre alcune norme sull’adulterio e magari considerarlo insieme al tema delle molestie e ad altri temi». Alla timida domanda dei giornalisti occidentali sulle motivazioni che spingono Erdogan all’ennesimo passo indietro nella storia, egli ha tagliato corto: «La Turchia è diversa dalla maggior parte dei Paesi occidentali».

In giro c’è ancora qualche politico o intellettuale entusiasta che vorrebbe che la Turchia entrasse nell’Unione Europea. È opportuno forse ricordargli ciò che disse nel 1996 lo stesso Erdogan in qualità di sindaco di Istambul: «La democrazia è come un autobus, si va fin dove si deve andare e poi si scende». Visto quanto accade in molte parti del mondo, si direbbe che abbia fatto scuola.

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