I jihadisti sì che sanno fare i soldi- L’Isis ha 3 miliardi per un superattentato ( Libero 04.05.2018)

Per coloro che ancora credono che lo Stato islamico in Siria e Iraq sia stato sconfitto e che di conseguenza non abbia più i mezzi finanziari per condurre la sua battaglia contro l’Occidente e gli infedeli, arrivano brutte notizie. Le strutture di intelligence americane e russe avevano già messo in guardia i servizi segreti di alcuni Paesi europei sul fattto che il «Dawlat al Islamyya», benchè sconfitto militarmente, abbia mantenuto il controllo di alcune aree territoriali ma che soprattutto possa ancora contare su una considerevole ricchezza.

Anche gli europei hanno voluto approfondire il tema della sua ricchezza e le risposte sono state peggiori del previsto. Grazie a questo denaro si sta avviando con grande cautela la seconda fase del califfato, ed in questo senso va letto il silenzio di Abu Bakr Al Baghdadi, immersosi nella clandestinità pare nel Khyber- Paktunkhwa, meglio conosciuto come Sarhad, una delle quattro province del Pakistan (capitale Peshawar) permeabile al terrorismo islamico o nelle «Fata» (Federally Administered Tribal Areas). Luoghi impervi e inospitali sparsi tra territorio pakistano e il confine afghano dove si troverebbero sia lui sia il suo avversario Ayman Al Zawahiri di Al Qaeda, seppur a debita distanza di sicurezza.

LA FORTEZZA Trattandosi di un’area di 27.220 kmq lo spazio non manca di sicuro, in particolare in quel 30% di territorio controllato da clan di etnia pashtun che sanno molto bene come tenere lontano chi si azzarda a metterci piede. L’organizzazione terroristica di Al Baghdadi possiede ancora oggi un patrimonio di circa 3 miliardi di euro, tutto denaro utile per finanziare la sua riorganizzazione e la vita in clandestinità, senza dimenticare la possibilità di poter finanziare atti terroristici eclatanti in Europa magari con droni con a bordo sostanze chimiche (il tema stato è discusso a porte chiuse nel recente vertice di Parigi). Il cosidetto «atto grosso» sarebbe l’obiettivo del gruppo terroristico, il quale così potrebbe riprendersi la scena mediatica che oggigiorno risulta appannata.

Difatti, la continua chiusura dei canali di propaganda sul web, le numerose operazioni antiterrorismo e gli arresti eccellenti hanno innegabilmente ridotto il numero di giovani affascinati dalla narrativa jihadista, da qui l’urgenza di dare una dimostrazione di forza, di potenza. Ecco perché il prossimo «Ramadan» (16 maggio-14 giugno) è atteso con preoccupazione costante dai servizi di intelligence euopei. Per tornare all’enorme ricchezza della quale dispone l’Isis occorre ricordare come nei tre anni di massima potenza il Califfato abbia potuto sfuttare i giacimenti petroliferi di tutto il nord Iraq e la Siria ma non solo, il 40% della produzione di cereali in Iraq e l’80% del cotone siriano si sono trasformati in dollari sonanti.A riempire i forzieri delle bandiere nere vi era anche «il ministero di Ghanima» (botti- no in arabo), che ha fruttato almeno 1,5 miliardi di dollari, guadagnati anche con le con fische delle terre ai cristiani, agli sciiti e agli yazidi poi affitate ai sostenitori dell’Isis. Multe e tasse su tutte le transazioni economiche locali: i commerci, i trasporti. Persino i certificati di matrimonio o di nascita venivano tassati. Anche i tribunali islamici hanno fatto lievitare gli affari con le multe comminate dalla polizia religiosa verso chi trasgrediva «la morale pubblica» (Hisba).

OTTIMI INVESTIMENTI Sanzioni a chi portava le barba troppo corta, chi veniva sospreso a fumare o a bere alcool, oppure quando il velo delle donne non era «abbastanza integrale», tutte multe che hanno riempito le casse dello Stato islamico. Fin qui tutto chiaro, ma dove sono andati finire tutti questi soldi? Negli anni l’Isis ha reinvestito in Medio Oriente tutto il denaro accumulato con i loschi traffici dei vari racket imposti in Siria e Iraq e guarda caso, anche in Turchia, dove le banche si sono dimostrate più che ospitali anche con i foreign fighters che vedevano accreditarsi lo stipendio mensile in conti aperti nel Paese della mezzaluna. Soldi serviti per avviare piccole imprese gestite oggi da ex combattenti fuggiti per tempo prima del collasso dell’Isis. Chi ha il compito di reinvestire il denaro del califfo la sa davvero lunga: persino 400 dei 2.000 allevamenti di car- pe (pesce molto apprezzato dagli iracheni) erano intestati a prestanome collegati al gruppo terrorista. A fronte dei miliardi di dollari guadagnati con petrolio, il taglieggiamento di alcune imprese straniere (vedi il gruppo Lafarge che pagava per continuare a produrre cemento), il traffico di armi, di opere d’arte e traffici infami come quello della vendita delle schiave yazide, fa davvero sorridere l’annuncio in pompa magna della scoperta in Francia di 461 «donatori» che hanno inviato soldi all’Isis.

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