Come si temeva si sono sgretolati i trionfalismi russo-americani che per mesi hanno magnificato la scomparsa dell’I-SIS dai teatri di guerra del «Siraq». A sancire l’infondatezza delle facili soluzioni e della propaganda, fenomeni che hanno sostituito quasi ovunque l’azione politica ragionata, prudente e pragmatica, ci ha pensato il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Il suo rapporto pubblicato il 27 luglio descrive come le milizie dell’ISIS siano pienamente operative in Siria e in Iraq dove potrebbero contare di nuovo su 25-30.000 combattenti, quasi lo stesso numero che la CIA stimava nel 2015, epoca nella quale lo Stato islamico conquistava cuori e menti di migliaia di giovani musulmani e convertiti in tutto il mondo. Oggi dall’Europa non c’è più l’afflusso di combattenti ipnotizzati dall’idea di costruire lo «Stato perfetto» e circa 1.500 dei 6.500 foreign fighters made in EU sono rientrati in Europa. Sconfitti e delusi dall’esperienza militare ma addestrati alla guerra, costituiscono una seria minaccia alla sicurezza ma non solo. Sono un costo enorme per i loro Paesi visto che non lavorano e vengono mantenuti con le loro numerose famiglie dal welfare state.
Per tornare all’ISIS, benché i territori che oggi controlla si siano fortemente ristretti e i suoi miliziani operino solo lungo il confine con la Giordania, nelle zone desertiche dell’Anbar e nelle impervie zone montagnose nelle province di Kirkuk, a Diyala e Salahudin, sono riusciti a mettere le mani in Iraq (sempre secondo l’ONU), su alcuni pozzi di petrolio che gli assicurano moneta sonante. A supporto delle tesi trionfalistiche degli scorsi mesi sono state diffuse molte notizie, alcune vere come l’elenco delle uccisioni dei luogotenenti del califfo, alcune false e molte difficilmente verificabili. Un esempio: il prestigioso «Wall Street Journal» qualche giorno fa, ha raccontato la storia di Ismail al Eithawi (mai sentito prima) che ha dichiarato «di essere stato presente ad un incontro con Al Baghdadi e altri leader dell’ISIS nel maggio del 2017 vicino alla cittadina di Mayadin (Siria). Il califfo era estremamente magro e la sua barba era ingrigita. Parlava a bassa voce, ed ad un certo punto si è messo a gridare contro i suoi uomini, accusandoli di essere degli incompetenti. Poi se ne è andato per primo». Chi conosce la storia dell’Iraq degli ultimi 30 anni e si interessa di strategia ha pensato ad una frase di Sun Tzu (stratega cinese tra VI e il V secolo a.C.): «Se sei lontano dal nemico, fagli credere di essere vicino». Chi è Ismail al Eithawi e in quali condizioni ha raccontato queste cose visto che è stato interrogato dopo l’arresto avvenuto ai confini con la Turchia? Mistero, anche se il titolo «Vecchio e arrabbiato, così appariva Al Baghdadi un anno fa», ha fatto il giro del mondo ed è servito allo scopo. Quale? Dissimulare, fingere di essere deboli e malati per continuare a comandare e riorganizzare le proprie fila? Probabile. L’ISIS può contare non solo sulle notizie oblique fatte filtrare alla bisogna, ma anche sugli errori causati dal perenne clima di tensione tra Russia, Turchia e USA. Questo stato di cose ha depotenziato l’azione militare dei curdi che hanno fatto moltissimo per combattere l’ISIS e che ora si devono guardare dalle attività belliche della Turchia contro di loro. Ennesimo tradimento. Per questo non riescono più a cacciare i jihadisti che mantengono le posizioni, ad esempio nella provincia siriana di Deir ez-Zour. Al Baghdadi in questi mesi ha perso il suo «Stato», ma è tornato ad essere pericolosissimo come mostrano gli spaventosi attentati come quello del luglio scorso a Sweida (Siria) dove ci sono stati 250 morti, 150 feriti e donne e bambini rapiti. L’ONU ritiene anche che la diaspora dei foreign fighters abbia portato in Libia da tre a quattromila miliziani «capaci di lanciare attacchi significativi in Libia e oltreconfine, ritornando a tattiche asimmetriche e ordigni esplosivi improvvisati».
A tutto questo Donald Trump sempre più immerso nei suoi guai giudiziari, ha risposto con un tweet il 18 agosto scorso: «Gli Stati Uniti hanno messo fine al ridicolo pagamento annuale di 230 milioni di dollari per la Siria. L’Arabia Saudita e altri ricchi Paesi del Medio Oriente cominceranno a fare i pagamenti invece degli USA. Io voglio sviluppare gli Stati Uniti, le nostre forze armate e i Paesi che ci aiutano!». E l’Europa? Naviga a vista senza avere la capacità di produrre nessuna iniziativa comune di contrasto al fenomeno, se non sterili piani nazionali o costosissimi progetti alibi che dovrebbero deradicalizzare i jihadisti. In Francia, dopo aver speso 32 milioni di euro (ne erano previsti 60) senza alcun risultato, hanno lasciato perdere. Nell’epoca dei tweet e dei governanti social ci si accontenta, spesso senza farne parola, degli attentati sventati. Sperando che tutto questo non crolli all’improvviso, proprio come un ponte «che doveva restar su altri cento anni».