Qualche giorno fa a Berlino un giornalista è stato allontanato dalla conferenza stampa congiunta tra il presidente turco Erdogan, inauguratore della grande moschea di Colonia (costata 30 milioni di euro, pagata dal Governo di Ankara), e la cancelliera Angela Merkel, perché indossava una maglietta che invocava alla libertà di parola in Turchia. Erdogan ha assistito alla scena sorridendo beffardo, mentre la cancelliera ha atteso impassibile che il giornalista fosse allontanato prima di iniziare. Nessuno ha detto nulla ma in quei pochi istanti, ci è passata davanti tutta la debolezza mostrata dall’Occidente negli ultimi decenni. Gli islamisti non si possono più criticare nemmeno restando in silenzio e indossando una maglietta.
Lo scorso 26 settembre era il trentesimo anniversario della pubblicazione in tutto il mondo di uno dei libri più dibattuti, se non il più discusso di tutta la letteratura moderna: «I versi satanici», scritto dall’autore anglo-indiano Salman Rushdie. I nove capitoli del libro narrano le vicende di due musulmani indiani che, scampati ad un disastro aereo, diventano i simboli del bene e del male. Passarono solo nove giorni e in India scoppiarono disordini di piazza talmente gravi che il libro venne messo fuorilegge. Subito dopo allo scrittore arrivarono le prime minacce di morte del tipo: «Ti prenderemo stasera, Salman Rushdie, al 60 di Burma Road» indirizzo londinese dove i Rushdie abitavano. Poco dopo toccò alla sua casa editrice, l’inglese Viking Penguin, ricevere diverse minacce. Il 1988 finì con il rogo di Bolton (4 dicembre) dove vennero bruciate alcune copie del libro esattamente come fecero i nazisti il 10 maggio 1933, nell’Opernplatz di Berlino, in cui venne appiccato un grande fuoco dove furono gettati tutti i libri che secondo la dottrina di Adolf Hitler erano «contrari allo spirito tedesco». Ironia della sorte è proprio nel giorno dell’amore, il 14 febbraio del 1989 (san Valentino), che le nostre libertà, ed in particolare quella di parola, iniziarono a restrigersi sempre di più. Rushdie venne condannato a morte dall’editto religioso dell’ayatollah iraniano Ruollāah Khomeyni, per lungo tempo coccolato in Europa. La sua «fatwa» liberò l’intolleranza e la violenza che covavano sotto la brace del mondo islamico. Vi furono altri roghi del libro, assalti alle librerie, alle ambasciate e impiccagioni di manichini con la foto dello scrittore. Poi gli islamisti alzarono il livello, sgozzarono il traduttore giapponese de «I versi satanici», ferirono l’editore norvegese e tentarono di uccidere nel 1991 il traduttore italiano che riuscirono, per fortuna, solo a ferire. L’ayatollah Khomeyniī colpì nel segno, in molti lasciarono da solo lo scrittore, che sparì per decenni dalla vita pubblica braccato com’era dagli estremisti islamici.
L’Occidente riscoprì la parola «blasfemia» e si sprecarono i «se l’è andata a cercare». L’arcivescovo di Canterbury, Robert Runcie, dichiarò: «Capisco i sentimenti dei musulmani». Gli fece eco il rabbino capo Immanuel Jakobovits: «Tanto il signor Rushdie quanto l’ayatollah hanno abusato della loro libertà di parola». Senza contare i silenzi assordanti dei Governi occidentali, e l’isolamento e le accuse di «islamofobia» con relativi processi e condanne, per quei pochi che si schierarono con Rushdie.
In questi tre decenni tante altre cose sono successe: il regista olandese Theo van Gogh è stato sgozzato in strada ad Amsterdam (2004), i vignettisti danesi dell’«Jllands-Posten» (2005) sono spariti dalla circolazione e uno di loro, Kurt Westergaard, è sopravvissuto (2010) all’assalto di un militante somalo di al Qaeda, che avrebbe voluto fare una strage nella redazione dell’«Jllands-Posten». Nel 2007 Ayaan Hirsi Ali che scrisse la sceneggiatura del film di Theo van Gogh «Submission» nel quale si denunciano gli abusi e la condizione delle donne nel mondo islamico, dovette lasciare l’Olanda perché gli tolsero la scorta e oggi vive in America sotto la tutela dell’FBI. Di quanto accadde il 7 gennaio 2015 nella redazione del giornale satirico «Charlie Hebdo» e dei 12 morti sappiamo ormai tutto e lo stesso vale per le centinaia di attentati di matrice islamica che hanno colpito l’Europa nei decenni.
Oggi non si possono più pubblicare vignette satiriche sull’Islam e l’Europa è piena di fantasmi del libero pensiero, o sono spariti dalla vita pubblica perché minacciati, o vivono sotto protezione. Tra i più noti c’è il filosofo francese Robert Redeker in clandestinità dal 2006, il politico olandese Geert Wilders cambia di continuo domicilio per timore di attentati, mentre l’intellettuale tedesco Thilo Sarrazin fatica a pubblicare i suoi saggi. Nel 2010 pubblicò «La Germania si distrugge da sola»: per questo venne espulso dalla SPD e cacciato dalla Bundesbank. Ma perché? Scrisse che «l’immigrazione dai Paesi musulmani rischia in un paio di generazioni di cambiare il volto della Germania, trasformandola in un Paese islamico». È stato persino inventato il reato di «islamofobia», che in Canada ad esempio è legge: chi critica l’Islam si ritrova davanti al giudice. Lo stesso vorrebbero fare in Inghilterra: se dovesse affermarsi uno come Jeremy Corbyn, sarebbe uno dei primi provvedimenti che prenderebbe il suo Governo; poi in Francia e in Belgio. Tutte nazioni dove le organizzazioni islamiche pressano i partiti politici affinchè non si possa più criticare l’Islam. L’approvazione di queste proposte è solo questione di tempo e di numeri che sono tutti dalla loro parte.
Mentre Erdogan se la rideva a Berlino, il giornalista francese Eric Zemmour, autore de «Le suicide français», che critica ferocemente l’immigrazione, l’Islam e il multiculturalismo, teneva una conferenza in una libreria di Parigi. Come? Protetto da cinque guardie del corpo. Il prossimo, probabilmente, sarà Kurt Pelda, coraggioso giornalista svizzero «colpevole» di aver svelato quello che accadeva davvero nella moschea An ‘Nur di Winthertur. Non lasciamolo solo.
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