Caso Khashoggi, qualcosa non torna- Corriere del Ticino 25.10.2018

Alle ore 13.00 del 2 ottobre il sessantenne giornalista e analista politico saudita Jamal Khashoggi esce di casa diretto al consolato saudita di Istanbul; l’uomo ci deve andare per ottenere un certificato e ad oggi per quanto ne sappiamo, non ne è mai uscito. Nonostante i timori, la visita nella sede consolare è obbligatoria perché lui e la sua fidanzata turca, di 36 anni, hanno deciso di sposarsi per poi stabilirsi in Turchia. Dato che le autorità turche non si fidano della documentazione presentata, richiedono un certificato dell’anagrafe saudita che provi l’effettivo divorzio. Secondo alcune testimonianze Khashoggi aveva tentato di evitare il consolato saudita in Turchia preferendo quello di Washington, ma funzionari turchi lo avevano avvisato che quello di Istanbul era l’unico delegato in materia.

Ma chi era davvero Jamal Khashoggi? Un giornalista coraggioso? Un eroico blogger che si batteva contro il regime? Oppure si trattava di qualcuno molto ben inserito nei gangli del potere saudita che si giocava una sua spericolata partita tra tavoli dove si sedevano a turno i turchi, i sauditi, i qatarini e qualche servizio segreto? La terza ipotesi sembra essere la più pertinente senza nulla togliere al coraggio e all’impegno civile di Khashoggi. A riprova che si trattasse di un cittadino “molto speciale” c’è il fatto che nelle ore successive alla scomparsa, la fidanzata si è rivolta non alla polizia come tutti, ma direttamente all’entourage del presidente turco Erdogan. Un dettaglio non di poco conto.

Da giornalista Jamal Khashoggi divenne popolare all’inizio degli anni Novanta grazie al fatto che fu tra i pochissimi che riuscirono ad intervistare lo sceicco del terrore Osama bin Laden sia in Sudan che in Afghanistan. E come ci riuscì? Fortuna e bravura? Oppure Jamal Khashoggi conosceva la strada giusta? Certamente sì. Nel 2017 la fortuna iniziò a voltargli le spalle, la sua figura di riferimento Al-Walid bin Talal, uno degli uomini più ricchi del mondo che lo difese spesso delle ire reali, venne arrestato e detenuto (seppur in una suite del Ritz-Carlton di Riad) per tre mesi. Con lui agli arresti per reati di corruzione finirono alcuni generali dell’esercito, politici che in passato avevano ricoperto le massime cariche dello Stato, funzionari, ministri in carica e a sorpresa, ben 11 principi della famiglia reale. Fu la notte della scalata al potere di Mohammed bin Salman Al Sa’ud (MBS), che inviò un chiaro messaggio a chi osteggiava la sua ascesa: «O vi sottomettete o vi arresto tutti». Era il segnale che qualcosa era davvero cambiato anche per Jamal Khashoggi: per lui non ci sarebbero stati più sconti o il perdono in caso di ulteriori atti di disobbedienza, come ad esempio criticare il reame attraverso i social network. Il potere saudita lui lo conosceva bene, già consigliere e capo ufficio stampa della famiglia reale capì alla svelta che l’unica possibilità che gli rimaneva era quella di lasciare il Paese. Allora si trasferì negli Stati Uniti dove iniziò a collaborare con il «Washington Post» scrivendo nuovamente articoli molti critici sul regime saudita e sull’erede al trono. Inutile dire che la casa reale non apprezzò, manifestando il disappunto più volte, specie alle strutture dell’intelligence che Khashoggi conosceva molto bene.

Per tornare alla sua scomparsa, in gioco ci sono entrati tutti, i servizi segreti turchi (MIT), la magistratura di Istanbul e alti funzionari governativi che hanno dichiarato alla stampa di essere «convinti che Jamal Khashoggi sia stato ucciso all’interno del consolato e che il suo corpo sia stato fatto a pezzi e portato fuori con delle valigie». I giornali che fanno da megafono al Governo turco hanno subito indicato i colpevoli: 15 cittadini sauditi arrivati in Turchia su voli privati. Ma il corpo di Khashoggi non c’è e non c’è traccia nemmeno dei sauditi che sarebbero fuggiti. Dove? Mistero.

Lo scorso 11 ottobre e anche nei giorni successivi gli stessi media hanno diffuso la notizia che le autorità avrebbero «registrazioni audio e video in cui si sentirebbero le voci del giornalista e di alcuni uomini che parlano in arabo». Nei file si sentirebbero le torture inflitte e l’esecuzione di Khashoggi. Quindi? Abbiamo un caso di sparizione internazionale, un probabile omicidio, ma non c’è il corpo, ci sarebbero dei colpevoli che non si trovano e una sola certezza: Jamal Khashoggi è entrato nel consolato saudita il 2 ottobre senza mai uscirne, almeno con le sue gambe.

Le teorie e i complotti su questa vicenda impazzano da molti giorni ma visti gli attori, il luogo e la nazione dove si sarebbe consumato il presunto omicidio e il successivo occultamento del corpo, la prudenza è d’obbligo. Tante le domande. Perché i servizi segreti sauditi alle prese con un delicatissimo momento di transizione come quello attuale dovrebbero uccidere un noto oppositore mentre si trovava all’interno di una struttura diplomatica per di più ad Istanbul?

Perché un principe in ascesa come MBS, erede al trono designato non senza traumi e spaccature interne, un uomo che gode del sostegno degli USA e di altri attori regionali, dovrebbe infilarsi in una vicenda dalla quale può solo ricevere discredito, sanzioni e isolamento internazionale? Perché mandare in fumo il piano «Vision 2030» da lui fortemente voluto, un progetto gigantesco fatto di investimenti economici che punta a modernizzare l’Arabia Saudita e per il quale sono necessari capitali stranieri? Per un oppositore seppur di prestigio che scrive sul «Washington Post»?

Tutto è possibile, ma qualcosa davvero non torna. E se i nemici dell’erede al trono saudita, che sono moltissimi persino nella sua stessa famiglia, avessero architettato tutto? MBS, anche a causa del suo carattere risoluto, è inviso a molti principi e a numerosi membri influenti della famiglia reale, che con la sua ascesa hanno perso privilegi economici e consolidate posizioni di potere. La sensazione è che le pagine peggiori di questa storia debbano essere ancora scritte. Tutto questo sperando che non finisca come «il golpe di cartone» ambientato guarda caso, in Turchia, nell’estate del 2016.

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