Ma i poliziotti sono buoni o cattivi? La domanda in sé non ha molto senso, visto che, come in tutte le persone che appartengono alle altre categorie professionali, anche fra i poliziotti ci sono i buoni e i cattivi con le relative e infinite sfumature intermedie. Il problema reale, però, riguarda la loro immagine complessiva. Faccenda molto seria, a dire il vero, perché un conto è vedere le forze dell’ordine come puri strumenti di repressione, un conto è considerarle come i nostri angeli custodi. Un conto è percepirli come vittime, un conto come carnefici. Godono di buona stampa? Dipende dalle situazioni e a volte anche dalle visioni politiche sul loro conto. Opinioni, quindi. Ma cosa dicono i fatti? «I fatti dicono che in tutta l’Europa è cresciuta la violenza nei loro confronti», ci dice Stefano Piazza, coautore del libro di fresca pubblicazione Sbirri, maledetti eroi (Paesi edizioni). L’abbiamo intervistato, partendo da una vistosa caratteristica del volume: gli autori della prefazione (Salvini) e della postfazione (Feltri).
di CARLO SILINI
Il libro ha una prefazione di Matteo Salvini e una postfazione di Vittorio Feltri. Un imprinting politico di parte?
«Non è così. La prefazione di Matteo Salvini è stata richiesta in quanto è ministro degli Interni italiano. Se ci fosse stato un altro ministro l’avremmo chiesta a lui. Quando abbiamo iniziato a scrivere c’era infatti il ministro Minniti e ci eravamo già attivati per chiedergli una prefazione. Salvini è arrivato dopo. In ogni caso c’è da dire che Matteo Salvini ha un occhio di riguardo per le forze di polizia. Ma non c’è nessun tipo di intendimento politico in questa scelta. Inoltre io, come cittadino svizzero, non ho nessun interesse a cavalcare una qualsiasi forza politica italiana. A me interessa la figura istituzionale, anche perché questa figura si batte molto per le forze di polizia».
A volte anche troppo. Come nel caso Cucchi (il trentunenne Stefano Cucchi morì il 22 ottobre 2009 durante la custodia cautelare, un caso di cronaca giudiziaria che ha coinvolto agenti di polizia penitenziaria, medici del carcere di Regina Coeli e carabinieri italiani, sul quale Salvini ha polemizzato con la sorella del defunto, n.d.r.).
«I casi nei quali le forze dell’ordine hanno superato il segno o hanno abusato della fiducia che l’istituzione ripone in loro sono minimi e quando ci sono stati sono stati perseguiti. Nel caso di Stefano Cucchi devo dire che si tratta di una vicenda molto mediatizzata, molto triste e – mi permetto di dire – sulla quale non è stata ancora scritta la parola fine. Speriamo che venga fatta giustizia. Ma la mia impressione è che su questo caso in tanti abbiano superato il confine».
E Vittorio Feltri?
«La postfazione gliel’ho chiesta io. Sono legato personalmente a Feltri da un sentimento di amicizia e gratitudine perché mi ha aperto la strada della stampa italiana e infatti scrivo regolarmente su “Libero”. Quando vado a trovarlo parliamo di gatti, lui li ama molto come me. È un uomo di grande intelligenza, molto divertente, una penna fantastica. Certo divide, è provocatorio, ama scioccare, ma come giornalista è eccezionale».
Ma è spesso fuori dalle righe.
«Per chi lo conosce personalmente la cosa è diversa. Per conoscerlo bene bisogna leggere almeno il suo ultimo libro “Il borghese”, dove si spiega tutto il suo modo di essere. È un uomo complesso, ha avuto una vita molto particolare e negli ultimi tempi ha scelto la via della provocazione per manifestare il suo scontento intellettuale per come vanno le cose in Italia».
Veniamo al libro: com’è nato?
«Questo libro nasce dal mio impegno a favore delle forze di polizia iniziato nel 2015, quando, insieme a un gruppo di amici in Ticino, ho fondato l’Associazione amici delle forze di polizia, che oggi conta quasi 300 iscritti. Avrei voluto scriverlo allora, nel 2015, questo libro, ma mi mancavano ancora molti dati e non mi sentivo pronto. Mi mancavano alcuni contatti con le forze di polizia europee, per esempio in Svezia, Germania e Francia. Con il tempo ho avuto la fortuna di entrare in contatto con queste realtà grazie alla Federazione svizzera dei funzionari di polizia».
Perché questo libro?
«Per raccontare una situazione che vivono tutte le forze di polizia in Europa: la violenza contro i loro funzionari. In Italia nel 2017 ci sono state oltre 6 mila aggressioni. In Svizzera ce ne sono circa 3 mila l’anno. In Francia gli agenti di polizia vengono uccisi non solo sulle strade ma anche a casa loro, dopo le operazioni di polizia, per vendetta dei malviventi. Ciò che è preoccupante è la situazione di grave stress nella quale vivono i funzionari di polizia. Sempre in Francia registriamo il record di suicidi».
Da cosa nasce la pressione sulle forze dell’ordine?
«Da una società sempre più scontenta e arrabbiata che vede nelle divise un problema e non accetta più niente. Noi non accettiamo più una multa per eccesso di velocità, un controllo in dogana, di essere perquisiti all’ingresso di uno stadio o di un concerto pur sapendo che cosa è successo negli ultimi anni in aree simili».
Il clima di ribellione alle istituzioni e all’ordine costituito, tuttavia, non è paragonabile a quello degli anni Settanta del secolo scorso.
«Mi piacerebbe pensarlo, ma i numeri dicono altro. C’è qualcosa di inquietante anche a livello politico: esiste un partito dell’anti-polizia che è transnazionale e che vede sempre la polizia imputata. Internet la fa da padrone: un detenuto cerca di evadere spaccando sulla testa di un secondino una scopa ferendolo. Lo rincorrono, lo spintonano e magari gli danno anche uno schiaffo. Uno fa il video della scena e lo mette su Internet e immediatamente c’è l’attivista politico che parla di polizia violenta che colpisce il povero detenuto».
Sono quindi i social a peggiorare la situazione?
«Sicuramente. Anche se il disagio è molto più profondo. In Belgio Amnesty International ha fatto un’indagine stabilendo che la polizia è islamofoba, perché secondo le loro cifre è stata fatta tutta una serie di fermi di personaggi con i pantaloni afghani, la barba lunga nella zona di Molenbeck (la zona considerata fucina di jihadisti occidentali, da cui provengono alcuni terroristi autori di attentati vari, n.d.r.). Ma, secondo voi, fermare queste persone in un simile contesto è segno di razzismo o di islamofobia? Quando ti trovi davanti a queste cose ti chiedi da che parte sta girando il mondo. Siamo prigionieri di questo spirito. E questo partito transnazionale dell’anti-polizia che spesso nasce nell’estrema sinistra fa sì che gli agenti vengano visti come il problema e non come degli amici».
Non sempre è facile considerarli come tali.
«Però sono nostri amici, nostri fratelli, nostri zii, gente che lavora per la nostra sicurezza. Il libro che ho scritto con la collega Federica Bosco vuole raccontare le storie ordinarie di quotidiano eroismo che non vengono raccontate».
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