Non sarà facile dimenticare quanto visto, per coloro che dopo un lungo assedio sono entrati nel villaggio di Al Barghouz sull’Eufrate, definita l’ultima roccaforte siriana dell’ISIS. Qui le forze curdo-arabe sostenute dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna hanno trovato tra i cassonetti della spazzatura 50 teste di ragazze yazide. Prima della caduta dell’ultimo bastione delle bandiere nere, le giovani rapite dai miliziani dell’ISIS erano diventate schiave del sesso per poi essere uccise, decapitate e gettate tra i rifiuti. Ancora una volta nel momento della sconfitta finale, così come fatto a Mosul e Raqqa, i jihadisti hanno dato nuovamente prova di una crudeltà che sfugge a qualsiasi comprensione, accanendosi ancora sulle giovani donne. Tra i responsabili di questa ennesima barbarie ci sono molti foreign fighters europei, per i quali in molti chiedono clemenza al punto da voler riportarli in Europa «per evitare che vengano condannati a morte in processi sommari». Nonostante continuino ad arrivare notizie che parlano di massacri di civili commessi dai jihadisti durante l’assedio di Al Barghouz, c’è ancora chi si indigna per la revoca della nazionalità alla jihadista inglese Shamima Begum, di nazionalità britannica ma di origini bengalesi, cresciuta a Londra, che all’età di 15 anni ha lasciato la capitale per volare in Siria, dove si era sposata con un jihadista. Il Centro internazionale per l’antiterrorismo (ICCT) ha stimato che la presenza media femminile nel «Siraq» si aggira intorno al 17%-20% del totale dei foreign fighters europei, che sarebbero tra i 3.922 e i 4.294 individui. La giovane donna non ha mai rinnegato quanto fatto e da qui arriva la decisione del Governo inglese di revocarle la nazionalità. L’Esecutivo deve già fronteggiare la minaccia terroristica interna e il rientro dei propri foreign fighters. Solo nel 2018 almeno 400 inglesi sono tornati nel Regno Unito dopo aver combattuto per gruppi come ISIS, Al Qaeda o per il Fronte al-Nusra e altri ne rientreranno causando enormi problemi di sicurezza nazionale, per non parlare dei costi a carico del contribuente, visto che il reinserimento sociale di chi taglia gole e decapita nel «Siraq» è impossibile o quasi. La caduta di Al Barghouz sta illudendo tutti coloro che sono disposti a credere che la minaccia terroristica islamica sia ormai terminata, un po’ come accadde con la morte di Osama Bin Laden. La realtà invece è molto diversa: in Europa e nei Balcani non si ferma l’enorme flusso di denaro che serve a finanziare moschee e associazioni gestite da estremisti che generano terroristi, così come non si ferma la pressione esercitata dalla Fratellanza musulmana, braccio armato dell’islam politico, affinché l’islam conquisti sempre più spazi nelle istituzioni, nelle università, nelle scuole e in tutta la società europea. Coloro che sono impegnati in questa vera operazione di conquista sanno benissimo di poter contare sull’arrendevolezza dell’Occidente e su molti politici di pastafrolla, che confondono la libertà di culto e l’integrazione con le preghiere pubbliche sui marciapiedi, nei parcheggi e per la strada. Nel «Siraq», con il progressivo ritiro degli americani voluto dal sempre più improbabile e confuso Donald Trump, tutto è pronto per la rinascita del califfato, considerando che il leader dell’ISIS Abu Bakr Al Baghdadi è ancora vivo e vegeto. Chi ha letto gli ultimi rapporti del Pentagono (Trump come noto non li legge e non ascolta) sa che ad esempio a Idlib e nel nord della Siria ci sono ancora decine migliaia di jihadisti affiliati allo Stato islamico e ad Al Qaeda. È stato deciso a tavolino che di loro si devono occupare Russia, Turchia e Iran, ma allo stato attuale la situazione è bloccata. In questo contesto la Turchia spinge per allargare la sua «fascia di sicurezza» dopo aver invaso nel silenzio generale il cantone curdo di Afrin, dove oggi nelle scuole si insegna la lingua turca e dove vige ormai la disastrata economia di Ankara. Il caos quindi ritornerà anche perché non sono certo venute meno le motivazioni della guerra in Siria iniziata nel 2011. A chi ha poca memoria è opportuno ricordare che tutto cominciò con una rivolta popolare contro il regime alauita di Bashar el Assad, trasformatasi velocemente in una guerra per procura (che ha fatto 500.000 morti) contro la pesante influenza dell’Iran e con il coinvolgimento di Turchia, Russia, delle petromonarchie del Golfo e delle potenze occidentali, che pur di abbattere il regime hanno sostenuto i jihadisti, salvo pentirsene e tornare maldestramente sui loro passi. Il crollo territoriale dello Stato islamico non è la fine del terrorismo: l’odio settario sunnita rimane forte sia in Siria sia tra la minoranza sunnita dell’Iraq, potendo contare sul fatto che le potenze arabe sono sempre pronte a gettare benzina sul fuoco. Non è mai scomparsa inoltre la fascinazione per la costruzione dello «Stato perfetto» dove vivere governati dalla sharia; quanto accade nelle Filippine, in Indonesia, in Malesia e in alcuni Paesi africani non può che farci paura.
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