Cosi’ lo Stato islamico prova a riorganizzarsi nel Siraq. Tanti uomini ma nessun leader.

Centinaia di militanti dello Stato islamico tra i quali moltissimi foreign fighter fuggiti nel marzo 2019 dalla battaglia finale di Baghouz (Siria), continuano a rientrare in Iraq. Secondo l’intelligence iracheno negli ultimi otto mesi almeno 1.000 combattenti sono tornati a vivere nella parte centrale e settentrionale del paese dove sono ancora presenti gruppi di irriducibili molti dei quali nascosti nelle centinaia di tunnel sotterranei. Da qui portano attacchi notturni ai leader della comunità locali e contro le forze di sicurezza irachene. Agli inizi di luglio del 2019 due motociclisti sono stati uccisi a Kirkuk mentre a Diyala, nell’est dell’Iraq, hanno attaccato i militari iracheni che hanno il compito di stanarli. Quel che resta dei media dello Stato islamico hanno ricominciato a pubblicare dei video perlatro di scadente qualità, nei quali sono stati mostrati questi attacchi cosi’ descritti da un uomo tenuto in ostaggio; “Metto in guardia tutti i mokhtar (che significa letteralmente “scelto” )che lo Stato islamico può raggiungere chiunque voglia”. La stessa strategia viene utilizzata dall’Isis in Siria dove ad essere prese di mira oltre ai civili e i militari, sono le strutture petrolifere di Al-Omar (Deir Ezzor) protette dagli uomini della SDF che proprio pochi giorni fa hanno respinto un massiccio attacco jihadista ai pozzi di petrolio. Per rientrare in gioco lo schema utilizzato dai jihadisti è sempre lo stesso: per scatenare l’odio settario tra sunniti e sciiti e far tornare il caos, ecco le autobombe e agli attentati a catena. Tutto esattamente come fece in Iraq il terroristo giordanoAbu Musab al Zarqawi alias di Amad Fāil al-Nazāl al-Khalāʾche tra il 2003 e il 2006 ( anno della sua morte) mise la sua firma su almeno 800 attentati contro le truppe USA e la popolazione civile.

«La soluzione all’ostacolo è la pazienza, solo la pazienza porterà alla ricompensa di Allah»Anwar al-Awlaki. 

Tanti militanti nessun capo

Nonostante l’attivismo sul campo e la mancanza di problemi nel trovare degli affiliati, all’Isis manca un leader che sappia mettere ordine tra le tante cellule jihadiste rimaste attive nell’area. Del vecchio gruppo di comando di Al Baghadi non c’è rimasto piu’nessuno e sul territorio è impossibile sostituire i militari del Jaysh Rijal at-Tariqa an-Naqshabaniya (JRTN) che passarono sotto le bandiere nere di Al Baghdadi. Uomini come Izzat Ibrahim al Douri, vicepresidente ai tempi del regime di Saddam Hussein, oppure l’ex colonnello dei servizi segreti Samir Abd Muhammad Al Khlifawi meglio noto con il nome Haji Bak, roppure Azhar al-Obeidi e Ahmed Abdul Rashid dueex generali dell’esercito diventati governatori dell’Isis a Mosul e Tikrit. Lo stesso vale per i comandanti militari dell’Isis vedi Tarkhan Tayumurazovich Batirashvili – Abu Omar al-Shishani, Gulmurod Salimovich Khalimov, Shaker Wahib al-Fahdawi al-Dulaimiel Amed ʿAbd Allāh al-iyālī – Abu Muslim al-Turkmani,Abū ʿAlī al–Anbārī e moltissimi altri. Senza contare il vuoto lasciato dal siriano Abu Muhammad al Adnani – āhā ubī Falāa incenerito da un drone USA nel 2016 che era il carismatico portavoce e capo dell’intelligence dello Stato islamico.

Abu Muhammad al Adnani                                 Abu Omar al-Shishani

Oggi il Califfo è ancora nascosto da qualche parte ma nessuno sa dove sia. Forse tutte le attività per stanarlo nel “Siraq”, i bombardamenti e i droni pronti ad incenerirlo, potrebbero averlo convinto ad andare altrove. Ma dove? Il mondo per lui non poi cosi’ grande perché oltre agli americani, ai russi che lo vogliono impiccare sulla Piazza Rossa ( Vladimir Putin che lo ha promesso se lo cattura lo farà), alle forze democratiche siriane e a tutti quelli che vogliono incassare i 25 milioni di dollari della taglia che c’è sulla sua testa, anche Ayman al-Ẓawāhirī leader di Al Qaeda, è certamente interessato alla sua cattura. Quindi ? Recentemente l’ex ministro dell’Interno iracheno Baqir Jabr al Zubaidi ha dichiarato all’agenzia stampa “Nova che”:“ l’operazione “Volontà di Vittoria” lanciata dalle forze di sicurezza nelle province di Salah Din, Ninive e Al Anbar ha confermato ciò che avevamo precedentemente scoperto: Al Baghdadi non è in Iraq e secondo le informazioni ricevute si trova in Libia”. Qualcuno ha anche azzardato che il massiccio flusso di partenze di migranti dai porti libici potrebbe essere una prova della presenza del Califfo iracheno in Libia. Ma anche qui non c’è nessuna prova. Secondo il giornalista del Foglio Daniele Raineri profondo conoscitore dell’Iraq e delle dinamiche dell’Isis; “sono tornati al gioco di lungo termine. Mantenere un basso profilo all’interno delle comunità emarginate del dopoguerra, coltivando rimostranze locali, cercando di conquistare la fiducia di bambini e adolescenti, evitando esposizione e perdite, combattendo e colpendo meno di quanto potevano, accumulando denaro e spendendolo per attirare persone. A volte non hanno nemmeno bisogno di conquistare una città perché lo stanno già governando. Quando ho pianificato di fare rapporto da Mosul nel febbraio 2014, sono stato dissuaso perché era già un’area sotto il controllo dello Stato islamico nonostante la presenza del governo iracheno, quattro mesi prima della caduta. Guardi le mappe recenti dicendo che il territorio dello Stato Islamico è zero rispetto al 2014 e va bene, ma passeresti qualche notte in alcuni villaggi vicino alle colline di Hamrin o ad ovest di Ramadi? Ne dubito”.

Dove rinasce l’odio. Carceri e campi profughi

Solo nelle nelle carceri irachene attualmente, ci sono piu’ di 20.000 (numero per difetto) detenuti accusati di essere stati organici all’Isis. Molti di loro sono stati condannati a morte nonostante mancassero del tutto le prove di un loro coinvolgimento diretto e in ogni caso spesso, trovare le prove è quasi impossibile. C’è poi lo spaventoso numero di persone presenti nei campi profughi (compresi donne bambini e anziani) nei quali le condizioni di vita risultano ogni giorno piu’ precarie. Carceri, campi profughi o campi di prigionia sono da sempre il terreno preferito dagli estremisti islamici per far germogliare la pianta dell’odio. La storia recente dovrebbe averci insegnato che se si lasciano irrisolti questi problemi, altro sangue scorrerà.

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