Altro che 30mila Terroristi (Panorama 14.08.2019)

di Stefano Piazza- Luciano Tirinnanzi

Un recentissimo rapporto dell’Onu indica in questa cifra l’esercito dei foreign fighters nel mondo. Ma la stima non tiene conto di fiancheggiatori e seconde linee, altrettanto pericolose, dall’Europa all’Asia. Consistenza e geografia del jihadismo vanno quindi riviste.

Trentamila foreign fighters. L’equivalente di un’intera divisione, poco meno di un corpo d’armata. È questa la cifra che le Nazioni Unite, nell’ultima relazione divulgata dal Consiglio di Sicurezza in merito al terrorismo internazionale, ha stabilito per dare un peso numerico alla minaccia globale che ISIS, Al Qaeda e altre formazioni jihadiste minori continuano a perpetrare senza sosta in tutto il mondo. Tuttavia, quel numero fuoriuscito dal Palazzo di vetro è quantomeno ottimistico e, soprattutto, non considera minimamente la galassia di fiancheggiatori, predicatori e facilitatori economici che contribuiscono in larga parte a mantenere in vita il gigantesco business del terrore.

Se, ad esempio, a quel computo sommassimo anche tali figure – che solo nominalmente rappresentano un pericolo di secondo piano, ma che in realtà costituiscono l’ossatura del terrorismo internazionale – arriveremmo alla spaventosa cifra di ottantamila “soldati”. A dirlo sono l’insieme delle analisi di varie agenzie d’intelligence incrociate con i report di numerosi istituti di ricerca sul fondamentalismo islamico. L’esercito di questi “supporter del terrorismo” conta infatti almeno cinquantamila soggetti (cifra, peraltro, stimata al ribasso) che allignano in quasi tutti i Paesi di Africa, Medio Oriente e Asia, e in gran parte dell’Occidente. La loro estrazione è varia: ne fanno parte imam, contadini, operai, carcerati recidivi, commercianti, trafficanti e spregiudicati signori della guerra. Ma anche ragazzi e ragazze in età poco più che scolare. Insomma, una tragedia sociale e un pericolo sottostimato.

Del resto, come sottolineano anche gli esperti dell’ONU, mai come oggi viviamo una fase incerta – diremo di transizione – durante la quale, nonostante siano tramontati simboli del terrore come Osama Bin Laden e i Califfati di Raqqa e Mosul, si registra un lavorio indefesso nel sottobosco del fondamentalismo che prelude a una nuova fase di attacchi terroristici. Che potrebbero iniziare già nel 2019. E che, tanto per dire, abbiamo già visto in azione al Cairo la notte del 4 agosto, dove solo una casualità ha impedito il concretizzarsi di un attentato eclatante (sono comunque morte 20 persone per un attacco ordito, secondo le autorità, da gruppi afferenti alla Fratellanza Musulmana).

Ma torniamo ai numeri. La minaccia terroristica mondiale si sostiene grazie a introiti che l’ONU ha calcolato in una forbice che si aggira tra i 50 e i 300 milioni di dollari: corrieri di denaro, money tranfer non registrati e gli hawaladar(una sorta di mediatori finanziari) costituiscono i metodi più sicuri e maggiormente usati – tanto da Al Qaeda quanto da ISIS – per finanziare la causa jihadista, e trasferire fondi irrintracciabili a livello sia regionale sia globale. Si tratta di un network ben strutturato e composto da prestanome o familiari di estremisti, che s’intestano carte di credito o, peggio ancora, che gestiscono i conti corrente di combattenti deceduti. Più raramente, si usano anche la crittografia sul deep web e le valute digitali. Ma a cosa servono precisamente questi soldi? A offrire stipendi agli operativi, case sicure per i basisti e a disporre di liquidità per armi e viaggi.

Europa Il sistema è particolarmente in uso in Europa, dove le restrizioni sono maggiori ed è più difficile eludere i controlli. Il rapporto ONU si è concentrato in particolare su 6mila foreign fighters partiti per il “Siraq” grazie a fondi mai reperiti: il 75% di loro ha aderito all’ISIS. Di questi, il 30-40% è morto in combattimento, mentre un 15% resta detenuto in Medio Oriente e un altro 10-15% si è trasferito altrove nella regione. Il restante 30-40% ha fatto ritorno in Europa. Molti di questi attualmente risultano introvabili. Nonostante la scarsa capacità di pianificazione operativa esterna, le intelligence europee (che hanno fornito alle Nazioni Unite le proprie analisi), parlano di scarse possibilità di pianificazione operativa esterna da parte dei gruppi terroristici non europei come ISIS e Al Qaeda, ma anche di provate capacità di sferrare nuovi attacchi internazionali da parte di questi stessi soggetti. In che modo? In Germania coloro che si definiscono salafiti sono circa 12.000 e 4.000 di loro sono ritenuti pronti all’azione. A loro vanno aggiunti migliaia di estremisti islamici turchi, balcanici e ceceni, molti dei quali vivono in condizioni di totale clandestinità. In Francia, il Paese europeo più colpito dal terrorismo islamista, le persone ritenute pericolose per lo Stato sono schedate con una lettera, la “Fiche S”: nel 2018 erano 29.973 di cui, secondo un rapporto presentato al Senato dal ministero degli Interni, quelli pronti a colpire sarebbero addirittura 17.000.Senza contare i3.000 detenuti, che vengono monitorati da una struttura di intelligence appositamente creata dal governo francese (seppur tardivamente, nel 2017). Insomma, se questo non è un esercito poco ci manca.

Medio Oriente Certamente, il Medio Oriente resta il punto più caldo, sia come modello organizzativo che come crocevia dei jihadisti di tutto il mondo. L’ONU ne ha contati 15mila soltanto a Idlib, in Siria, ultimo avamposto di ciò che rimane dei terrroristi che avevano fondato il Califfato tra il Tigri e l’Eufrate, e che dall’inizio dell’anno hanno già portato 30 attacchi contro gli Stati Uniti e la coalizione internazionale. Non va meglio in Iraq, dove la ricostituenda Al Qaeda è disposta a scendere a patti anche con i concorrenti dello Stato Islamico per ragioni di opportunismo (peraltro, il ledader dell’ISIS Al Baghdadi si troverebbe ancora al suo posto). Diverso è il discorso della Penisola Araba, e dello Yemen in particolare, dove gli sforzi prioritari dei qaedisti sono concentrati proprio contro l’ISIS, rispetto ai ribelli sciiti Houthi. Qui Al Qaeda ambisce a creare un Califfato e deve disporre di fondi notevoli, se è in grado di comprare missili Grad, Katyusha e SA-7 e 9, e batterie antimissili. Il suo numero di operativi è sei volte superiore all’ISIS, che in Yemen dispone di circa 700 uomini.

Asia e Africa L’Africa e l’Asia restano i laboratori per eccellenza del jihadismo mondiale. Se l’Asia rappresenta il futuro del terrorismo – Sri Lanka, Indonesia, Malesia e Filippine, in primis; ma anche Uzbekistan e Tagikistan, le cui masse di operai e migranti che si spostano da Russia e Turchia fino alla Corea del Sud, sono al centro di una serrata e organizzatissima propaganda islamista – l’Africa è invece il suo presente. A contendersi la leadership qui sono: la Libia, dove resistono migliaia di miliziani dell’ISIS tra le zone grigie di Zillah, Fuqaha e nel Fezzan, e dove molti combattenti sono autoctoni (l’unico nome noto tra i forestieri è quello di Abu Moaz Al Tikriti, un comandante iracheno); la Somalia, dove i qaedisti di Al Shabaab dispongono di intere province e hanno intensificato la propria attività passando a condurre attacchi più piccoli ma ripetuti, in alcune occasioni addirittura quotidiani, reclutando forsennatamente i giovani indigenti; e l’Africa occidentale, dove nel deserto del Sahel si muovono liberamente gruppi di fuoco come Jama Al Nusrat ul Islam wa al Muslimin (JNIM), l’emirato di Timbuktu (AQIM), Al Mourabitoun, Ansarul Islam e Macina, radicati al punto dall’essere sull’orlo di costituire una società secondo i dettami della Sharia (hanno già riformato 650 scuole, per dire). In Mali e Niger è molto attivo anche lo Stato Islamico del Grande Sahara, così come in Nigeria, mentre ISWAP (Stato Islamico dell’Africa occidentale, partenogenesi di Boko Haram) è concentrato nel Borno e nel bacino del lago Ciad, oltre che a Diffa, in Niger. Un quadro non proprio idilliaco, quello che unisce i 30mila foreign fighters rilevati dalle Nazioni Unite alle giovani leve del jihadismo, e che dimostra quanto la cultura del terrore sia in grado di trasfigurare intere società, sull’esempio dell’Afghanistan che fu meta del turismo hippie negli anni Settanta e la cui società era proiettata verso un futuro spensierato e del tutto civile. Mentre oggi, al contrario, c’è chi vorrebbe candidare l’Europa a diventare un Califfato sul modello dell’oscurantismo talebano.

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