di Stefano Piazza-Luciano Tirinnanzi
«La prima cosa che faccio appena uscito dal carcere? Un altro attentato». Sono le scioccanti dichiarazioni di comprovati terroristi, che entrano ed escono dalle galere d’Europa neanche fossero porte girevoli. Foreign fighters, reclutatori e irriducibili condannati per reati connessi al terrorismo di matrice islamica, che approfittano di permessi premio e altre imperizie delle norme anti-terrorismo Ue, per «finire il lavoro» una volta fuori. Nel silenzio generalizzato, ogni anno sono centinaia gli jihadisti liberati per buona condotta. Come Sudesh Amman, lo studente londinese che lo scorso 2 febbraio ha accoltellato i passanti di Streatham, nel sud della capitale britannica, prima di venire ucciso dalla polizia (il bilancio è di tre feriti). Amman aveva solo vent’anni: era finito dentro nel dicembre 2018 per diffusione di materiale estremista e condannato a tre anni e quattro mesi, ma già a fine gennaio 2020 era stato rimesso in libertà (quindi, un anno e mezzo prima). Neanche una settimana fuori, e ha portato a termine il suo progetto terroristico. Lo stesso era avvenuto con Usman Khan, arrestato nel 2010 a Londra, condannato a sedici anni, ma rilasciato già nel 2018: dopo meno di un anno ha assalito a coltellate i passanti nei pressi del London Bridge, uccidendone due e venendo a sua volta eliminato dalla polizia. Così anche Anjem Choudary, ex avvocato anglo-pakistano e fiancheggiatore dello Stato Islamico: liberato nell’ottobre 2019 dalla prigione di massima sicurezza di Frankland, ha scontato solo metà della condanna (cinque anni e mezzo). Ha poi fondato in Inghilterra il gruppo salafita Al-Muhajiroun, e tutt’oggi resta il predicatore più pericoloso d’Inghilterra. Oltre al danno, la beffa: per ammissione del governo stesso, le indagini, i processi e la sua detenzione sono costati ai contribuenti inglesi oltre 2 milioni di sterline (2,3 milioni di euro), mentre lui e la sua famiglia continuano a ricevere il sussidio dallo Stato. A Choudary è legato Mohiussunnath Chowdhury, che nel 2017 – sei mesi dopo aver lasciato la prigione – si stava preparando a colpire la parata del Gay Pride a Londra (al telefono con la sorella si vantava di «aver ingannato tutti»). Sono solo i casi più eclatanti. Come affermato dal premier Boris Johnson, infatti, in Inghilterra stanno per essere scarcerate 74 persone detenute per reati di terrorismo, che si andranno così ad aggiungere agli oltre 500 estremisti islamici già liberati anzitempo negli ultimi dieci anni, chi per fine pena chi per «buona condotta».C’è chi ha accusato le autorità inglesi di considerare solo i bilanci economici dei penitenziari, nel gestire il flusso delle scarcerazioni. Accuse che Downing Street respinge ovviamente con fermezza. Di certo, però, il peso dei detenuti radicalizzati non è indifferente: gli otto anni del palestinese Abu Hamza Al Masri (prima che fosse estradato a New York per scontare un ergastolo) sono costati agli inglesi 1,5 milioni di sterline. Mentre la detenzione del «collega» giordano Abu Qatada – il cui curriculum lo vede legato ad Al Qaeda – è pesata sulle casse dello Stato per un milione. Londra ha dovuto sborsare poco meno della metà anche per il siriano Omar Bakri Mohammed, la cui reclusione ha drenato oltre 300mila sterline di denaro pubblico, prima che venisse rispedito in carcere in Libano (su volo di Stato, ovviamente).
In Francia la situazione è ben peggiore. Il ministro della Giustizia Nicole Belloubet ha dichiarato che, solo nel 2019, sono stati rilasciati 450 radicalizzati, buona parte dei quali sono tornati subito a delinquere. Il primo del 2020 è stato Mohamed Achamlane, condannato a nove anni per associazione criminale e possesso illegale di armi, uscito dopo cinque. Achamlane è l’ispiratore degli attacchi alle scuole ebraiche compiuti da un suo adepto, Mohamed Merah, nonché il fondatore di Forsane Alizza («i Cavalieri della fierezza»), gruppo salafita sciolto nel 2012 per «finalità di terrorismo».Ancora: in Belgio Fouad Belkacem, imam e fondatore del gruppo Sharia4Belgium, sta per essere rispedito in Marocco, suo Paese d’origine, dove dovrà scontare due condanne, una per traffico di droga e l’altra per aver insultato il re. Intanto, però, il suo gruppo ha seminato fin troppo bene, reclutando jihadisti da inviare in Siria per combattere al fianco dello Stato Islamico e promuovendo l’introduzione della legge islamica in Europa. A Sharia4Belgium era legato anche il convertito Jean-Louis Denis, condannato nel 2013 a dieci anni di carcere per aver reclutato giovani miliziani confluiti nell’ISIS. La sua pena è stata ridotta a meno di cinque anni in appello, nel novembre 2016. Motivo per cui oggi è nuovamente attivo per le strade di Bruxelles, dove avvicina sbandati e senzatetto da convertire al salafismo, la dottrina più radicale dell’Islam. Di lui si è tornati a parlare dopo l’incredibile episodio che lo ha visto frequentare un corso di lingua olandese a Bruxelles, in una struttura che accoglie i figli delle vittime degli attacchi terroristici del 22 marzo 2016.
Difficilissimo, invece, reperire dati sulle scarcerazioni in Germania. Di certo, si sa che l’ultimo a essere stato liberato è il predicatore di origine turca Bilal Gümüs, leader del gruppo salafita We Love Mohammed, condannato a tre anni mezzo nel dicembre 2018 per aver contribuito alla radicalizzazione di molti giovani (uno dei quali morto in Siria a soli 16 anni). Gümüs è stato clamorosamente scarcerato lo scorso 15 gennaio, a causa di errori formali nell’invio degli atti processuali, e oggi è a piede libero. Lo stesso vale per Sven Lau, protagonista assoluto della scena salafita tedesca nonché fondatore della Sharia Police, una sorta di ronda di quartiere per far rispettare la legge islamica. Il 26 luglio 2017 è stato condannato a cinque anni e mezzo, in quanto fiancheggiatore della milizia islamista siriana Muhadschirin Dschaisch wal-Ansar, legata all’ISIS. La giustizia tedesca ha pensato bene di scarcerarlo in anticipo, il 24 maggio 2019, poiché a quanto pare mostrava di soffrire particolarmente le condizioni detentive. Nonostante la lunga stagione del terrorismo islamico, dunque, l’Europa sembra non aver ancora imparato a tutelarsi. Perché? Michele Groppi, del dipartimento Studi sulla Difesa del King’S College di Londra, la spiega così: «L’Europa è consapevole del pericolo, ma cerca di non allarmare la popolazione dopo la fase terroristica appena trascorsa. Però, è un’arma a doppio taglio: se non si vogliono mettere sotto controllo le comunità islamiche, i jihadisti ne approfittano, trovando nell’indifferenza delle istituzioni il modo per continuare ad agire. Hanno inoltre raffinato il modus operandi: siccome nessuno sa che sono usciti di prigione, perché i media non ne parlano, è facile per loro riprendere il lavoro lasciato a metà.
Qui sta il vero rischio, quello che dovrebbe farci paura». In definitiva, se la condanna verso i responsabili di atti di terrorismo e di condotte che alimentano il terrorismo è pressoché unanime in tutta l’Unione, tuttavia ancora oggi permangono differenze profonde tra Stati membri sulle modalità e sulle garanzie che caratterizzano l’azione di polizia e quella giudiziaria. L’Assemblea Generale dell’ONU, e prima ancora il Consiglio dei Diritti Umani di Ginevra, hanno da tempo tracciato una strada che cerca di commisurare la gravità dei reati con il rispetto delle garanzie e della tutela dei diritti umani nel contrasto al terrorismo internazionale. Quale sia il risultato finora, è sotto gli occhi di tutti.
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