di Stefano Piazza- Luciano Tirinnanzi
Che cos’hanno in comune la vicenda di Silvia Romano, Al Qaeda, ISIS, il petrolio iracheno, l’eroina asiatica e i Pasdaran iraniani? I servizi segreti turchi. Le cui mani tentacolari si allungano su innumerevoli dossier internazionali, grazie allo strapotere che il presidente turco Tayyip Recep Erdogan garantisce loro.
Plenipotenziari durante il contro-golpe che ha smantellato l’unico potere alternativo al partito del presidente (AKP) – quello cioè dell’esercito – oggi gli uomini dell’intelligence turca sono i veri «giudici di cassazione» delle sorti dei cittadini. In patria come all’estero, in politica come in economia. Occupano posti in parlamento, hanno in mano le chiavi delle più importanti industrie nazionali, e monitorano il popolo in chiave anti-curda così come i commerci in chiave geopolitica.
Il tutto sotto la copertura delle leggi di Stato, che hanno progressivamente ampliato i poteri di sorveglianza ed esteso le immunità per gli agenti del Mit, l’intelligence nazionale fondata da Mustafa Kemal Ataturk nel 1925. Un dipartimento che oggi Erdogan utilizza come una milizia personale in tutto il mondo: per spiare veri e presunti oppositori del regime islamista di Ankara, e per influenzare le attività dei governi dei Paesi islamici ovunque serva.
Se in Turchia i fondi per istruzione, sanità e politiche sociali diminuiscono ogni anno, per il Mit i soldi si trovano sempre: nel 2019 il budget era 147,6 milioni di euro, ma già nel 2020 la cifra è più che raddoppiata, a 292 milioni (di cui 161 solo per il personale). Altri 308 milioni sono già stati destinati ai servizi per il 2021 e altri 322 per il 2022. Non solo. All’intelligence nazionale lo scorso 6 gennaio il presidente ha regalato un nuovo quartier generale, soprannominato «Kale», la fortezza. Costruito in uno spazio di duemila ettari a Baglica, nel Distretto di Etimesgut della capitale, è circondato da muri di cemento alti tre metri e vanta un sistema di sicurezza a prova d’intercettazioni.
Per ottenere queste notizie, molti giornalisti investigativi hanno pagato un caro prezzo. Del resto, le leggi prevedono pene detentive fino a dieci anni per chiunque indaghi o intralci le operazioni sotto copertura. Ma la censura è la parte meno interessante del potere coercitivo dell’intelligence turca. Il cui vero grimaldello è la licenza di uccidere, che una legge speciale garantisce ai propri agenti. Come dimenticare, del resto, la guerra di Ankara ai curdi in patria, e a quelli in Siria e Iraq, tutti indiscriminatamente inseriti sotto la voce «terroristi»? E gli omicidi politici in Europa dei capi della resistenza curda? Bersagli prediletti della repressione che punta a eliminare l’indipendentismo curdo, vera spina nel fianco del regime.
E come non ricordare le epurazioni seguite al tentato colpo di Stato, che nell’estate del 2016 hanno interessato almeno 60 mila persone tra intellettuali, giudici, insegnanti, funzionari pubblici e forze armate? Tutti incarcerati o rimossi dal proprio incarico, per sospetti legami con il presunto golpista Fetullah Gülen. Ovvero l’ex sodale di Erdogan, da anni rifugiato negli Stati Uniti per evitare di finire sotto le grinfie del Mit.
Come non rammentare, inoltre, la copertura offerta dai servizi turchi ai jihadisti dello Stato Islamico? Lungo tutto il corso del 2011 e fino al 2015 non solo l’ingresso dei foreign fighters, ma anche il contrabbando del petrolio dell’Isis è stato coordinato direttamente da loro. Transitava dalle terre occupate verso i valichi di frontiera siriani, da Jarabulus e Kilis fino a Gaziantep, sotto l’attenta supervisione del Mit. Che poi avocava a sé parte dei proventi, per ungere reti d’influenza e mantenere spie al soldo.
L’apparato d’intelligence turco, peraltro, ha ereditato questo sistema dall’agenzia d’intelligence dell’Impero ottomano, la Teskilat-i Mahsusa, la cui influenza si estendeva dall’Africa all’Asia Centrale. E che si sostanziava in reti di trafficanti d’oppio e sfruttava bande armate per condurre operazioni segrete. Col tempo, esse hanno formato quel «deep state» responsabile di violenze arbitrarie e uccisioni extragiudiziali, come ben documentato nel libro di Ryan Gingeras Heroin, Organized Crime and the Making of Modern Turkey (Oxford, 2014).
Oggi non molto è cambiato. Per «ragioni di stato», i servizi turchi mantengono rapporti internazionali con contrabbandieri e terroristi. Lo dimostrano le recenti trame somale, e nello specifico il caso di Silvia Romano, la volontaria italiana liberata proprio grazie ai buoni uffici di Ankara a Mogadiscio. Non è un caso. In Somalia si trova la più grande delle ambasciate turche nel mondo, e qui la Turchia è ormai il player più importante. Specie dopo il 3 giugno 2016, quando ha siglato un accordo monstre con la Somalia per progetti di «esplorazione, produzione, sviluppo e raffinazione di idrocarburi».
L’accordo ricalca quelli già siglati con Kenya (2014) ed Etiopia (2016). E ha comportato la costruzione di una base militare turca – la più grande d’oltremare, costata 50 milioni di dollari – e di reti infrastrutturali, per un valore pari a un miliardo di dollari. «Un contributo generoso per cui oggi la maggior parte dei somali considera la Turchia uno dei più stretti alleati», lo ha definito l’ambasciatore somalo in Turchia, Jama A. Mohamed. Con le aziende turche che, di fatto, ormai controllano il porto di Mogadiscio e persino la sicurezza dell’aeroporto. Del resto, Erdogan è stato il primo capo di stato non africano a visitare il Paese in vent’anni: la penetrazione turca nel Corno d’Africa è passata così dal gestire gli aiuti umanitari in seguito alla carestia del 2011, a dirigere tutti i programmi internazionali di cooperazione in materia di sicurezza.
C’è di più. Secondo Abdullah Bozkurt, giornalista investigativo turco e autore del libro Turkey Interrupted: Derailing Democracy (Blue Dome Press, 2015), il Mit sarebbe addirittura complice nel rapimento e riscatto di Silvia Romano. Ecco cosa sostiene a Panorama: «Nel 2014, dall’indagine di Al Qaeda in Turchia, abbiamo appreso che il Mit ha lavorato con gli agenti dell’organizzazione terroristica in casi di rapimento di cittadini occidentali in Siria. Il Qatar inviava denaro contante con aerei per il salvataggio, e il Mit coordinava la logistica per liberare gli ostaggi. Era un mezzo per finanziare i gruppi jihadisti. Forse mi sbaglio, ma sospetto che in questo caso si tratti di un’operazione simile. Qualcosa di certo non quadra».
L’ambasciata di Mogadiscio sarebbe stato il quartier generale delle manovre occulte. Rivela ancora Bozkurt: «Gestisce le operazioni d’intelligence proprio da lì, dove mantiene legami con Al Shabaab. Sappiamo, ad esempio, che un alto esponente di Al Qaeda turco, Ibrahim Sen, aveva un conto corrente in comune con Al Shabaab. Gli americani inviarono all’epoca una nota alla Turchia, chiedendo di indagare sul trasferimento di 600 mila dollari dalla Turchia verso i terroristi somali. Il governo Erdogan rispose di aver indagato, ma di non aver trovato nulla. Questo non è stato affatto sorprendente, perché Ibrahim Sen lavorava con il Mit per il trasferimento dei jihadisti dentro e fuori la Siria già a partire dal 2011. Di conseguenza, il governo non aveva alcun interesse a denunciarlo».
Tale modus operandi somiglia molto a quello dei servizi iraniani: «Non dovrebbe essere una sorpresa dato che Hakan Fidan, il capo del Mit, è stato coinvolto in un’indagine confidenziale sulla Forza di Quds (l’unità speciale dei Pasdaran iraniani, ndr) in Turchia. L’indagine, del 2010, è stata chiusa non appena Erdogan ne è venuto a conoscenza da parte di un procuratore». Vicino al generale iraniano Qassem Suleimani, Fidan ha personalmente intrecciato relazioni pericolose con Teheran, attraverso il Qatar. Nell’emirato le forze armate e i servizi segreti turchi sono piuttosto espansivi: a Doha, infatti, la Turchia dispone già di unità di terra, e presto aggiungerà risorse navali e aeree, secondo un accordo che autorizza gli stessi servizi turchi a raccogliere informazioni nell’area di Golfo Persico di pertinenza qatarina. Un altro passo verso l’espansionismo neo-ottomano di Erdogan, che trova nei servizi segreti la sua arma migliore.
Se nel quadrante africano e mediorientale le attività del Mit sono rivolte soprattutto all’espansione territoriale e alla dominazione geopolitica, nel continente europeo i servizi segreti turchi sono concentrati sulla propaganda: essi giocano un ruolo primario nello zittire i turchi della diaspora, nel silenziare le opposizioni curde e, soprattutto, nel favorire la penetrazione della versione erdoganiana dell’Islam tra le comunità musulmane d’Europa. Ciò è reso possibile dal «Dyanet», il potente ministero del culto turco, la cui opera è tesa a finanziare la costruzione di nuove moschee e a paga gli stipendi dei predicatori e imam inviati da Ankara per diffondere urbi et orbi il verbo di Erdogan.
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