di Stefano Piazza – Luciano Tirinnanzi
Il Senato della Repubblica approva, Luigi Di Maio sorride. Il motivo? L’Italia ha autorizzato il Qatar a finanziare la costruzione di 45 moschee e centri islamici in tutta Italia, di cui 11 solo in Sicilia. Costo complessivo: 50 milioni di euro. Moschee la cui gestione, purtroppo, è già finita nelle mani dei Fratelli musulmani. Ovvero, nelle mani di «un Islam radicale e politico, incompatibile con i valori democratici», come denunciato da Saïda Keller-Messahli autrice della prefazione alla versione tedesca del libro-scandalo Qatar Papers.
Si tratta della prima inchiesta, a opera dei giornalisti francesi Christian Chesnot e Georges Malbrunot, che abbia alzato il velo sulle reali intenzioni della Qatar Charity, la società controllata dell’Emiro del Qatar, Tamim bin Hamad al-Thani. Un’organizzazione che destina copiosi finanziamenti agli istituti culturali islamici in Europa, secondo una logica geopolitica, e che punta a islamizzare il continente. Secondo la giornalista e scrittrice Fiamma Nirenstein, «il Qatar ha due facce: una sorridente e gioviale, che ammicca a un possibile rapporto economico intenso con l’Occidente grazie alle sue immense ricchezze. Una che, invece, intende tenere viva una sedizione mondiale contro l’Occidente sotto il cappello della Fratellanza musulmana, quando non di altre realtà come lo Stato islamico che, secondo più fonti, in passato ha ricevuto importanti finanziamenti dal Qatar».
Chissà se il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ne era a conoscenza. Quando lo scorso 27 maggio il Senato ha ratificato l’accordo di cooperazione con Doha «in materia d’istruzione, ricerca scientifica e università» per un ammontare di 600 mila euro (196.165 euro per tre anni), il Movimento 5 Stelle e altri hanno taciuto o dimenticato di verificare le discutibili alleanze del Qatar. E chi sono questi alleati?
Tra gli altri, gli ayatollah iraniani, la Turchia di Erdogan, nonché Hamas e la Jihad islamica palestinese. Queste ultime, in particolare, sono notoriamente designate come «organizzazioni terroristiche»: dall’Unione europea, dai nostri alleati degli Stati Uniti, e ancora da Israele, Canada, Egitto e Giappone. L’accordo è entrato in vigore il 25 giugno, con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
Non è tutto. Mentre al Senato si discuteva preliminarmente dell’accordo con l’Emirato, in un tribunale di New York l’avvocato americano Steven Perles presentava una causa proprio contro la Qatar Charity per conto di alcune famiglie vittime del terrorismo islamico in Israele e negli Usa. Il motivo? Varie istituzioni finanziarie e benefiche del Qatar sono accusate di aver usato il sistema bancario statunitense «per fornire illegalmente a questi gruppi i soldi necessari per orchestrare e condurre attacchi terroristici».
Consapevoli di queste vicende poco chiare, gli unici a tentare di fermare l’iter di approvazione sono stati i parlamentari di Fratelli d’Italia. Tra i più attivi, c’era il senatore Giovan Battista Fazzolari, che a Panorama denuncia: «Questo accordo consente legalmente al Qatar di fare proselitismo a casa nostra, che è un fatto ancor più grave del firmare un generico accordo con l’Emirato. Intese bilaterali, per esempio quelle commerciali o per la limitazione delle mine anti-uomo, si fanno con tutti e non necessariamente con chi la pensa come te. Qui però è diverso. Si apre la porta delle nostre università a chi in Europa esporta l’Islam integralista, quello dei Fratelli musulmani. Con questo accordo sarà molto difficile vigilare».
La genesi del patto italo-qatariota risale appunto al 2012, quando al governo c’era Mario Monti. Fu lui a siglare un’intesa preliminare con l’emiro dell’epoca, Hamad bin Khalifa al-Thani, che però nel 2013 ha abdicato (non proprio spontaneamente) a favore dell’attivissimo figlio, Tamim bin Hamad al-Thani, la cui politica estera è molto più aggressiva che in passato. Dopo una lunga gestazione, in ogni caso, l’accordo è infine approdato alla Camera, fino all’esito raccontato.
Nel frattempo, il Qatar ha intrapreso un’azione di «moral suasion» in Italia, dove però la morale c’entra poco e contano i soldi. Doha si è accreditata nel nostro Paese comprando hotel di lusso, brand di alta moda quali Valentino, compagnie aeree, cliniche, intere zone residenziali (come avvenuto nel 2015, anno dell’acquisizione del progetto di sviluppo della zona di Porta Nuova a Milano). C’è chi ipotizza anche un prossimo ingresso qatariota nel mondo del calcio. In prima fila la Qatar Airways (già sponsor della Roma) e soprattutto il Qatar Sports Investement, il fondo che ha nel suo portafoglio anche il Paris Saint Germain.
Di ben altri affari si interessa Il fondo sovrano qatariota – Qatar Investment Authority (QIA), il cui patrimonio è stimato in 335 miliardi di dollari -che ha acquistato ingenti forniture militari, dando ossigeno alle casse di Leonardo, Fincantieri e a tutta la filiera industriale del comparto della difesa. Il valore di questa operazione ha superato complessivamente i 65 miliardi di euro. Insomma, do ut des. Io inietto denaro nelle vostre aziende strategiche, voi mi concedete di erigere moschee e fare proselitismo in Italia.
Lo ha sottolineato Antonio Occhiuto, ricercatore presso la Gulf State Analytics: «L’accordo Italia-Qatar è stato firmato pochi mesi dopo un’altra importante intesa sull’asse Roma-Doha nell’ambito della difesa, che già aveva inquietato rivali regionali del Qatar come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (Eau). Tale intesa, formalizzata a gennaio 2020, prevede la fornitura di sommergibili per la marina militare del Qatar da parte di Fincantieri, con la prospettiva per il gruppo italiano di gestire l’intera flotta navale del Paese».
Il problema è il contesto geopolitico: «La rivalità regionale che oppone il blocco saudita-emiratino contro l’alleanza Turchia-Qatar è in aumento, e c’è il rischio concreto che le scelte italiane, presenti e future, vengano considerate posizionamenti strategici». Pertanto, nonostante Roma si sia finora mossa per mantenere buoni rapporti con tutti i Paesi della regione, «sarà sempre più difficile estendere anche solo i rapporti economici e commerciali con una parte senza pregiudicarli con l’altra».
Per esempio, aggiunge Occhiuto, «anche Abu Dhabi detiene significativi investimenti in Italia, specialmente nei comparti bancario e finanziario. Inoltre, Roma esporta negli Emirati un terzo in più di quanto non faccia in Qatar. E, per quanto riguarda l’Arabia Saudita, il programma di liberalizzazioni economiche denominato Vision 2030 offre importanti opportunità in particolare nei settori petrolchimico, delle infrastrutture, costruzioni, sanità ed energie rinnovabili, dalle quali le aziende italiane non vogliono restare escluse».
Insomma, questo vortice di denaro che ha avvicinato molto (troppo?) Roma a Doha rischia di alienare al nostro Paese amicizie e rapporti pluriennali ben più solidi con altre realtà. Come intendono gestire tutto questo il governo e la Farnesina?
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