di Stefano Piazza- Luciano Tirinnanzi
L’ultima vittima dell’odio religioso contro i cristiani in Pakistan è Nadeem Joseph. mono lo scorso 29 giugno dopo cinque interventi chirurgici a seguito di un’aggressione. Motivo? La presenza di una famiglia cristiana nel quartiere musulmano di Swati Phatak di Peshawar era ritenuta inaccettabile dagli abitanti. Dopo che gli avevano bruciato le porte di casa. Nadeem aveva ricevuto un ultimatum: 24 ore di tempo per lasciare il quartiere. Detto tatto, la sera dcl 4 giugno un uomo chiamato Salman Khan si è presentato a casa della famiglia insieme ai figli e ha aperto il fuoco. Nadeem ha avuto la peggio mentre i suoi familiari sono rimasti feriti in maniera non grave. L’assassino è tuttora latitante. Quanto accaduto a Peshawar non e che l’ennesimo atto criminale contro i cristiani nella Repubblica islamica del Pakistan. Con i suoi 220 milioni di abitanti – dei quali circa il 97 per cento di religione musulmana (75 per cento sunniti e 25 per cento sciiti ma il dato è da sempre controverso) – è il sesto Paese più popolato al mondo e, secondo il rapporto 2020 di World watch research, tra i più pericolosi per i non musulmani: «I sacerdoti cristiani possono essere arrestati quando non rispettano la volontà delle autorità. Questo funge da monito per la minoranza cristiana e la intimidisce ulteriormente. Sono, infatti, considerati cittadini di seconda classe e discriminati in ogni aspetto della vita». Scorrendo la Costituzione pachistana, infatti, si scopre che ogni cittadino ha sì diritto alla libertà di parola, ma è comunque soggetto alle restrizioni necessarie «nell’interesse della gloria dell’Islam». Questa gloria si traduce nel quinto posto che il Pakistan occupa nella poco onorevole classifica dei Paesi che perseguitano i cristiani, preceduto solo da: Corea del Nord, Afghanistan, Somalia e Libia. Per i cristiani le cose hanno iniziato a mettersi male già nel 1947, anno dell’indipendenza pachistana dal Regno Unito. Da quel momento, la stretta sulla minoranza cristiana si è fatta sempre più pesante. Le chiese, per esempio, sono state regolarmente prese di mira da attentati dinamitardi, l’ultimo dei quali nel dicembre 2017 a Quetta, nella Bethel Memorial Methodist Church, dove un uomo si è fatto esplodere (bilancio di 11 morti e decine di feriti). Rivendicato dall’Isis, l’attacco era stato pensato per uccidere i 200 fedeli che si erano ritrovati per la cerimonia domenicale. Paradossali sono, in tal senso, le numerose cause giudiziarie intentate dallo Stato contro i sacerdoti che, per mancanza di mezzi finanziari, non sono riusciti a mettere in atto misure di sicurezza: il pastore della Chiesa della Gloria, Kashif Aziz di Bahawalpur, per esempio, è stato arrestato il 19 febbraio 2017 per tali inadempienze e, al fine di evitare la condanna a sei mesi di reclusione, ha dovuto sborsare 500 dollari. Ma la questione è più ampia e attiene a una sorta di «discriminazione istituzionalizzata» contro la cristianità, che spazia dal mondo del lavoro – dove ai cristiani sono riservate solo mansioni di basso livello – alle leggi sul rispetto del Corano. Illuminante a tal proposito è la vicenda di Asia Bibi: contadina cattolica e madre di cinque figli, è stata arrestata per blasfemia nel 2009 e condannata a morte. Dopo aver trascorso dieci anni nel braccio della morte, la Corte Suprema le ha accordato il diritto di lasciare il Paese, grazie soltanto alle forti pressioni internazionali che hanno incrociato i buoni uffici della Santa sede, dello stesso Francesco e di organizzazioni come Amnesty international. Asia non è la sola: a oggi, le persone accusate di aver profanato il Corano od offeso il profeta Maometto sono oltre 200, tutti cristiani vittime di malelingue. Infatti, per finire sotto processo per blasfemia in Pakistan è sufficiente che una persona renda testimonianza alla polizia, senza l’onere della prova. Neanche a dirlo, i cristiani sono le principali vittime di questo sistema delatorio. A difendere le comunità cristiane da questo accanimento è stato, fino al 2011, il politico Clement Shahbaz Bhatti: esponente del Christian liberation front, era salito al governo nel 2008 come ministro per le minoranze. Appena assunto il ruolo, era l’unico cattolico al governo, neanche a dirlo, ha iniziato a ricevere minacce di morte, specialmente dopo aver contribuito alla difesa dei diritti di Asia Bibi (motivo per cui è stato costretto alle dimissioni dopo poco). Pur avendo fatto richiesta di una scorta, non gli è mai stata concessa e così, il 2 marzo 2011, è rimasto vittima di un commando talebano, che lo ha crivellato di colpi lasciandolo a terra morto. Due mesi prima, stessa sorte era toccata al liberale Salmaan Taseer, ucciso dalla sua stessa guardia del corpo per essersi opposto alla legge sulla blasfemia e per aver difeso gli «infedeli». Lo stesso primo ministro Imran Khan, leader del partito Pakistan Tehreek-e-Insaf, ha rischiato grosso. Nato nel 1952 da una famiglia agiata di etnia pashtun, non è mai stato un fervente musulmano: già leggenda nazionale della nazionale pachistana di cricket, ex playboy (tre mogli e un numero di imprecisato di figli), era un grande consumatore di alcol e, secondo le accusa di una delle sue ex mogli, anche di cocaina e di giovani uomini. Tutte pratiche aborrite dall’Islam, per alcune delle quali vige la pena di morte. Fortunatamente per lui, ha sposato in terze notte Bushra Bibi Khan (che in Pakistan viene considerata come una donna in possesso di poteri soprannaturali) e si è rifatto l’immagine di un pio musulmano, al quale si può perdonare anche un passato licenzioso. Del resto, questo è un Paese di chiaroscuri, intrighi internazionali e doppie verità. Basti pensare al ruolo che Islamabad ricopre a livello internazionale: alleato strategico degli Stati Uniti in Asia centrale, è al tempo stesso lo Stato che ha nascosto e protetto Osama Bin Laden, e che oggi favorisce i talebani afghani e i loro alleati, compreso il gruppo armato della rete liaggani, protagonisti del narcoterrorismo e della guerriglia contro l’Occidente nelle «terre dell’ Islam». In Pakistan, inoltre, vivono indisturbati molti terroristi globali: attualmente nella lista figura anche Sajid Mir, la mente delle stragi di Mumbai del novembre 2018, che fecero 200 morti e oltre 300 feriti. Sia l’India che gli Stati Uniti ne hanno chiesto l’estradizione, senza ottenere alcuna risposta. Per capirne le ragioni, bisogna guardare alla complessa macchina dei servizi segreti nazionali: ovvero l’Isi, acronimo di Inter services intelligence, che sin dalla sua fondazione si è contraddistinto per condotte politiche spregiudicate e ben al di là delle leggi, spaziando dagli omicidi politici (di cui è stata vittima la stessa premier Benazir Bhutto nel 2007) a traffici di ogni tipo: droga, armi e componenti nucleari, di cui il Pakistan è in possesso (oggi si stima che Islamabad abbia tra le 110 e le 130 testate nucleari). Senza dimenticare lo stato delle relazioni con l’India, altra potenza nucleare con cui il governo pachistano scambia continui colpi d’artiglieria in relazione al possesso del Kashmir, la regione contesa dove solo nei primi mesi del 2020 ci sono state circa 500 violazioni del cessate il fuoco. Secondo il ricercatore di Nuova Delhi Saurav Sarkar, «nel prossimo futuro le relazioni deraglieranno ulteriormente e potrebbero essere del tutto irreparabili». E c’è da credergli, considerato che il Pakistan si è gettato tra le braccia del più grande nemico dell’India, la Cina. Con la quale Islamabad già dal 2015 ha siglato un accordo monstre per lo sviluppo di infrastrutture e trasporti. Si chiama ChinaPakistan economic corridor. Valore: 62 miliardi di dollari. Di questi, circa 50 sono destinati al porto di Gwadar, proprio in quel Mar Arabico dove il gigante asiatico tenta di frenare le ambizioni cinesi. Lo scalo è un punto fermo dell’iniziativa di Pechino «One Belt, One Road», ossia la Nuova Via della seta. Ma per Faran Jeffery dell’Islamic theology of counter terrorism londinese, anche le relazioni con l’Italia sono problematiche: «C’è una vasta comunità pachistana in Italia e i casi di radicalizzazione da voi non sono rari. È dimostrato che la stessa strage di Mumbai sia stata finanziata anche con denaro arrivato dal Nord Italia. Non entrerò nello specifico, ma posso dire che la radicalizzazione tra alcuni segmenti della diaspora pachistana in Italia è ancora troppo presente».
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