
di Stefano Piazza- Luciano Tirinnanzi
Aleksej Naval’nyj ora respira da solo. Ma non è una buona notizia. Almeno, non per Vladimir Putin. Dopo che il più mediatico degli oppositori del Cremlino è stato avvelenato su un aereo di linea russo (lo scorso 20 agosto), per il presidente-zar è diventato tutto più complicato. Usare metodi brutali e coercitivi per fermare il declino del suo partito nelle province orientali. Scansare le accuse di violenza di Stato. Sostenere che lui in tutto questo non c’entra nulla. Persino foraggiare guerre all’estero. «Il problema è che Putin oggi non dà più gli ordini» sostiene una fonte molto esperta di aree post sovietiche. «Ma questo accade perché non ne ha bisogno, e non certo perché gli oligarchi gli stanno facendo terra bruciata. Ogni cosa che desidera, c’è qualcuno pronto a realizzarla per lui. A volte, ancor prima che lui l’abbia pensata». Il riferimento è a una delle teorie più coltivate da politologi moscoviti, i quali sostengono che esista una vera e propria «corte putiniana», un «cerchio magico» di cortigiani senza scrupoli (e talvolta senza cariche formali), così vicini al presidente che rappresentano per lui una sorta di consiglio esclusivo. Quel circolo si chiama Consiglio di sicurezza della Federazione russa (Scrf). A farne parte sono gli uomini più potenti della Federazione: il potente ministro della Difesa Sergei Sojgu, artefice della guerra di Siria. L’indissolubile Sergej Lavrov, che occupa la poltrona degli Esteri ininterrottamente da quindici anni. Il generale Viktor Zolotov, che dirige la Guardia Nazionale, una sorta di pretoriani creati ad hoc dal presidente e che rispondono a lui soltanto. Aleksandr Bortnikov, il capo dell’Fsb, il servizio segreto erede del Kgb. A loro si devono aggiungere altri nomi eccellenti. Due su tutti: Igor Sechin, amministratore delegato della compagnia petrolifera di stato Rosneft e già agente dell’Fsb. E Yevgeny Prighozhin, lo «chef di Putin» e soprattutto al comando della famigerata Wagner, società di mercenari che Mosca impiega nelle più sporche operazioni di guerra. Secondo Anna Zafesova, giornalista di origine russa e già corrispondente da Mosca, «Putin ha creato un sistema centralizzato al massimo, e dunque al tempo stesso inefficiente. Perché appena si apre una falla, tutta l’architettura vacilla. È anche il caso di Lukashenko in Bielorussia, un leader che ha fatto il suo tempo, ma che per Mosca è inamovibile perché non esistono centri di potere alternativi. O, almeno, non abbastanza potenti. Putin e Lukashenko sono due autocrati che hanno basato il proprio potere su una popolarità di cui hanno goduto a lungo. Il problema di entrambi è che, temendo di essere sostituiti, hanno azzerato il dissenso e le correnti alternative, censurando i media e coltivando élite solo a condizione di ricevere in cambio fedeltà assoluta, pronti a distruggerle appena non si dimostrano leali. Un “divide et impera” primitivo, ma efficace». Il che mette a serio rischio la tenuta stessa del Paese, poiché quando un sistema non riesce a esprimere alternanze, resta soltanto il golpe. Come fece Krusciov con Berija, come replicò Breznev contro lo stesso Krusciov. «Oggi molti sognano un golpe di palazzo. Ma chi ha il coraggio di presentarsi all’opinione pubblica, in una condizione dove Putin è il sole attorno al quale tutto ruota, per dire che il caro leader è superato e che da oggi comanda lui? La piramide di potere che fa capo a un solo uomo cadrebbe tutta assieme. La nomenklatura ha paura ma, pur se consapevole di andare incontro al disastro, si stringe intorno al capo assoluto, nel timore di uno scenario estremo».
Il disastro si chiama economia. Basti pensare al progetto del gasdotto Nord Stream 2, vera àncora di salvezza della disastrata economia russa, che vede l’investimento di miliardi di dollari di sei importanti società del settore energetico, cinque delle quali rappresentano altrettanti paesi dell’Unione europea. Se dovesse saltare, i giorni di Putin potrebbero davvero essere contati. Questo perché le strutture autoritarie sono vittime di ciò che si chiama «assenza di feedback negativo»: dall’ultimo responsabile fino al braccio destro, tutti sono incentivati a dire al capo ciò che a lui più piace, per compiacerlo e ottenerne i favori. Il tentato omicidio di Naval’nyj y non fa eccezione. Ed è il motivo per cui Putin si è meravigliato della reazione europea, che ha messo in dubbio la realizzazione del gasdotto, se non si farà chiarezza sul caso. C’è poco da chiarire. Il veleno somministrato al blogger anti-Cremlino – il Novichok – è prodotto esclusivamente in Russia e non si ruba come un documento, né lo si trova in farmacia. Non siamo in un film. I servizi segreti sanno esattamente chi ha accesso (in pochi) a questi agenti mortali e chi no. Le autorità russe schedano ossessivamente ogni cosa. Perciò è più che ovvio che al Cremlino conoscano bene i fatti ed è ovvio che vi sia stata un’autorizzazione al vertice. Ma, come detto, il presidente pare prigioniero della sua corte, e la sua percezione filtrata da chi gli è vicino. O, meglio ancora, da chi sceglie e controlla coloro che possono avvicinarlo. Il che fa di Putin in buona sostanza un prigioniero di se stesso. A controllarlo, ovviamente, sono quegli stessi servizi segreti sui quali l’ex sindaco di San Pietroburgo ha fondato il proprio impero. Anche loro, però, sono divisi e in lotta per garantirsi maggiore influenza. Tra questi, c’è anche chi medita di sostituirlo. Specialmente dopo che il presidente ha riformato la costituzione russa in proprio favore, azzerando i precedenti mandati e auto concedendosi di poter «regnare» per altri quindici anni. Ciò significa che due, se non tre generazioni di politici, non possono aspirare a ottenere nulla se non un posticino nell’amministrazione, a Putin piacendo. «Quindi, paradossalmente non è da escludere che una serie di persone tramino per abbandonare appena possibile la nave di Putin» sperano alcuni attivisti e dissidenti contattati da Panorama. E una frenata Nord Stream 2 potrebbe rappresentare l’occasione giusta. Perché, come dice Norbert Röttgen, che presiede la commissione Esteri del parlamento tedesco, «l’unica lingua che Putin capisce è quella del gas naturale».
Simili dichiarazioni alimentano il potere dei «nemici» di Putin, che in definitiva non sono pochi. A spanne, si possono individuare in quattro gruppi principali: i cosiddetti «putiniani moderati», ovvero nazionalisti statalisti antioccidentali, definibili come «pragmatici», consapevoli che la Russia ha bisogno di una modernizzazione. Fanno capo al delfino di Putin ed ex presidente della Federazione, Dmitri Medvedev, che viene dato come in via di rottamazione dal potere dopo le sue dimissioni da premier. Ci sono anche i «falchi nazionalisti e ortodossi», ovvero coloro i quali hanno spinto e alimentato la guerra nel Donbass, e che fanno riferimento ai servizi segreti e all’esercito. Il loro ideologo è il già citato Igor Sechin, apparentemente un fedelissimo. Poi ci sono i «tecnocrati» o «liberali», che si occupano dell’economia russa e fanno riferimento all’ex ministro delle finanze Aleksej Kudrin: una generazione di tecnici cresciuta negli anni Novanta, che hanno intessuto stretti rapporti con l’Occidente. Molti in privato si dichiarano favorevoli a una Russia «più europea» e collaborano col regime pur se non lo tollerano. Minoritaria ma potente, questa corrente è benvoluta dal Cremlino, consapevole che senza di loro il Paese finirebbe a gambe all’aria. In cerca di un padrone, non riescono però a esprimere alcun leader. Infine, i «governatori»: ovvero l’élite nominata da Putin in persona e subordinata al potere centrale, che ha visto numerosi suoi rappresentanti destituiti ogni qual volta sono apparsi troppo indipendenti. È il caso di Sergey Furgal, governatore del Territorio di Chabarovsk, incarcerato e incriminato per omicidio plurimo perché non allineato al Cremlino. In definitiva, l’azzeramento dei mandati di Vladimir Putin, e la sua verginità presidenziale ricostruita, rappresentano una prova di forza e una dichiarazione di guerra ai concorrenti interni e internazionali, cui il presidente manda oggi a dire: «Governo solo io e non ci sarà alcuna transizione di potere o passaggio generazionale». Perché in Russia non c’è traccia di dialogo politico, ma permane un lungo e all’apparenza interminabile monologo. A meno che l’Europa non usi il gasdotto come clava politica, per schiacciare lo zar. Ma, in definitiva, a chi conviene?
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