Mentre la comunità internazionale si interroga sulla possibile nuova ondata del virus Sars Cov-2 e l’attenzione dei media è rivolta anche agli scontri armati nel Nagorno Karabakh, a 7.502,32 km da noi si consuma da ormai cinque anni nel silenzio della comunità internazionale, la guerra tra l’Arabia Saudita e lo Yemen. Nel recente Rapporto del Legal Center for Rights and Development (LCRDye), sono state aggiornate le agghiaccianti statistiche che mostrano come la guerra voluta espressamente dall’erede al trono saudita Mohammed Bin Salman ha provocato più di 43.181 tra morti e feriti nello Yemen. Secondo il Rapporto, 16.978 yemeniti hanno perso la vita e tra loro ci sono 2.790 bambini e 2.381 donne. I feriti di questa insensata guerra sono 26.203 tra i quali si contano 4.089 bambini e 2.780 donne: le cifre ci danno la fotografia del disastro umanitario in corso; i bombardamenti voluti dalla casa reale saudita “hanno distrutto 9.135 strutture vitali nello Yemen: 565.973 case, 576.528 strutture di servizio pubblico, 176.000 Centri universitari, 1.375 moschee, 365 strutture turistiche, 389 ospedali e centri sanitari, 1095 tra scuole e centri educativi, 132 impianti sportivi e 244 siti archeologici e 47 strutture mediatiche”. Per quanto riguarda le vittime le stime dell’Università di Denver sono peggiori; 102mila i morti alla fine del 2019 a cui si aggiungerebbero altri 131mila per fame, malattie e mancanza di cure.
Sciiti-zayditi contro i sunniti
La guerra civile dello Yemen ha il suo prologo nel 2014 quando i ribelli sciiti-zayditi Houthi -da sempre legati agli ayatollah iraniani e nemici del governo di Sana’a (capitale dello Yemen)- prima assediano la capitale, poi ne prendono il controllo chiedendo che i prezzi del carburante vengano abbassati e che di seguito nasca un nuovo governo. Poi nel gennaio 2015 la situazione precipita, i ribelli sequestrano il Palazzo presidenziale obbligando il presidente Abd Rabbu Mansour Hadi e il suo governo, ad alzare bandiera bianca. Ma è nel marzo del 2015 che la situazione si surriscalda ulteriormente, i sauditi formano una coalizione con Marocco, Egitto, Sudan, Giordania, Emirati Arabi Uniti (poi si sfileranno), Kuwait, Bahrain e Qatar che mira ad isolare economicamente lo Yemen (già poverissimo), oltre ad iniziare una serie di bombardamenti contro gli insorti Houthi, tutto questo con il supporto della logistica e dell’intelligence americana. A quel punto Abd Rabbu Mansour Hadi cambia idea, revoca le sue dimissioni e torna nello Yemen. Una mossa che non ha fatto altro che far sprofondare il Paese nella guerra civile e nel caos che vede anche Al Qaeda storicamente presente nello Yemen e alcune cellule dell’ISIS prendere parte al processo di destabilizzazione del piccolo Stato posto all’estremità meridionale della Penisola araba. I ribelli Houthi (quindi l’Iran) nel 2016 annunciarono la formazione di una sorta di “Consiglio politico” per governare Sana’a e gran parte dello Yemen settentrionale sotto l’autorità dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh che nel 2011 era stato “gentilmente” deposto.
Con le bombe anche il colera
L’idillio tra Saleh e gli Houthi durò molto poco perché nel il 2 dicembre 2017 l’ex presidente, invitò pubblicamente il popolo a prendere le armi contro i ribelli che lo uccisero due giorni dopo. Da quel momento lo scontro per procura tra le due potenze regionali Arabia Saudita e Iran ha gettato la popolazione civile nella disperazione e nella fame, tanto che ventidue milioni di yemeniti necessitano di assistenza, otto milioni sono a rischio di carestia e un’epidemia di colera ha colpito oltre un milione di persone in un conflitto dove entrambe le parti -secondo il Security Council delle Nazioni Unite- si sono rese colpevoli di violazione dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario. Ma è possibile che qualcuno fermi la guerra? Secondo Antonino Occhiuto, analista presso il Gulf State Analytics (GSA) di Washington D.C., “il ritiro del contingente militare degli UAE e l’impatto finanziario del Covid-19 sulle casse di Ryad, hanno rappresentato due durissimi colpi per l’Arabia Saudita e la coalizione militare guidata da Riyadh nello Yemen. I ribelli Houthi, dal canto loro, cercano di capitalizzare su queste difficoltà e sono attualmente passati all’offensiva specialmente nel settore di Ma’rib, capitale dell’omonimo governatorato, che si trova a 170 chilometri a Est della capitale Sana’a”. È vero che ogni giorno che passa l’impegno bellico nello Yemen diventa sempre più insostenibile e per i sauditi uscirne a testa alta è davvero complesso? ”I Sauditi cercano di ridurre il loro coinvolgimento nel conflitto ma non possono permettere che il governo di Hadi ceda alla pressione militare degli Houthi e che il gruppo supportato dall’Iran si trovi in una situazione negoziale di vantaggio nel prossimo futuro. Ad oggi non sembrano profilarsi le condizioni per una pace duratura ma più per un temporaneo cessate il fuoco ma qui occorre tenere d’occhio nei prossimi mesi l’andamento dei prezzi del petrolio che avrà sicuramente un impatto molto rilevante sul ruolo saudita nel conflitto”.
I Sauditi sono ottimi clienti per i fabbricanti di armi
E gli USA che fanno? A parte vendere armi ai sauditi (61% degli appalti) cosi’ come Francia, Italia e Spagna (gli inglesi hanno smesso), l’intelligence USA è particolarmente attiva nello Yemen dove i micidiali droni continuano ad eliminare i leader di Al-Qaeda nella Penisola arabica (AQAP) e militanti dell’ISIS. A proposito di strike eccellenti l’ultimo è del gennaio 2020 con la morte dell’emiro Qasim Muhammad Mehdi al-Raymi 41enne yemenita, uno dei leader più importanti di AQAP ucciso nel corso di una vasta operazione avvenuta lo scorso 8 gennaio 2020 nei dintorni di Sana’a. Da tempo, Al Raymi era stato messo dalla CIA in cima alla lista dei terroristi da eliminare e per questo motivo sul suo capo pendeva una taglia di 10 milioni di dollari, una taglia che avrebbe ingolosito chi ha messo gli americani sulle tracce del luogo dove si nascondeva il terrorista yemenita. Nello Yemen si sentiva sicuro, tanto che girava liberamente. Non aveva fatto i conti con i droni Predator/Reaper già usati con successo in Afghanistan, Pakistan e Libia, armati di 14 missili Hellfire pilotati da una base del Nevada a oltre 10mila chilometri di distanza proprio come in un videogame.
@riproduzione riservata