di Stefano Piazza e Luciano Tirinnanzi
Mentre l’Europa affronta l’emergenza Covid, Pechino traccia le linee di sviluppo da qui al 2035. Investimenti in tecnologia dei superconduttori, difesa, agricoltura. Per rafforzare il suo status di superpotenza globale
Trecento delegati in rappresentanza di oltre 90 milioni di iscritti per decidere il futuro della Cina. È quanto andato in scena a Pechino, nel V Plenum del XIX Comitato centrale del Partito comunista cinese (PCC). Ovvero il congresso che, a porte chiuse e in barba alla pandemia, ha definito la strategia per lo sviluppo economico-sociale del Paese per i prossimi cinque anni.
Si è trattato di un evento storico, nel quale il presidente Xi Jinping ha tracciato le linee guida per lo sviluppo della repubblica cinese da qui al 2035. Parole chiave: «doppia circolazione» e «leadership tecnologica».
Avvantaggiati dalla «miracolosa» guarigione dal Coronavirus, a Pechino si è stabilito di espandere il mercato interno e invadere il mercato globale. Come? Accelerando il progetto commerciale della Belt and Road iniziative: la celeberrima «Nuova Via della Seta» che migliorerà i collegamenti commerciali, terrestri e marittimi, tra la Cina e l’Eurasia, finalizzata a rendere anzitutto l’Europa dipendente dai prodotti e dai servizi cinesi. Che, va detto, ormai da tempo non sono più sinonimo di scarsa qualità, ma riescono a competere con ogni tipo di concorrenza.
Quanto la strategia di Pechino si rivelerà vincente, dipenderà anche da come la nuova amministrazione Usa a guida democratica intenderà rispondere alla sfida. Di certo, a Washington stanno studiando il dossier e indagando sull’altra parola chiave che connota la strategia del partito comunista cinese: «doppia circolazione».
Un termine tutto da decifrare, che rappresenta l’orizzonte e il sogno proibito di Pechino: rafforzare l’economia e la società cinese attraverso una sorta di vasi comunicanti, tra sviluppo della circolazione economica internazionale e domestica. Un progetto che sta molto a cuore al presidente Xi Jinping, avendolo ideato personalmente, e che punta a bilanciare le voci del mercato estero e quello interno. Chiarisce il concetto il sinologo Francesco Sisci, che a Panorama afferma: «L’idea cinese oggi è in sostanza quella di sviluppare ancor più il mercato interno. Questo ha un senso pratico. Un paese di 1,4 miliardi di persone non può dipendere per il 40% del Pil dal commercio estero. In questo, c’è anche una funzione strategica. Il mercato esterno può essere meno prevedibile e più incerto in tempi di tensione politica con gli Stati uniti. In questo senso, lo sviluppo del mercato interno può essere una grande valvola di compensazione». Insomma, i vasi comunicanti contemplano la sfida interna e quella esterna. Ed è quest’ultima che agita i sonni dell’Amministrazione Usa e che esige una risposta calibrata: «Credo che Biden cercherà di essere formalmente più soffice, ma che nella sostanza potrebbe essere anche più duro del suo predecessore. Mentre Donald Trump sperava di spingere al limite la diplomazia per arrivare a un accordo, Joe Biden sta probabilmente meditando una strategia di lungo termine su come affrontare la Cina. In sostanza, l’ossatura potrebbe essere quella delineata a suo tempo dalla seconda amministrazione Obama: creare accordi di libero scambio con alcuni Paesi del Pacifico, come il TPP, e con l’Europa, che di fatto isolerebbero di più la Cina» conclude Sisci.
Di certo, Pechino non si accontenterà del solo mercato interno, e vuole a tutti i costi il completamento della Belt and Road initiative. Inoltre, punta all’intelligenza artificiale, e in particolare a dominare la produzione dei «semiconduttori»: ovvero i chip e i circuiti integrati che sono alla base di tutti i principali dispositivi elettronici e microelettronici, a cominciare dagli smartphone. I semiconduttori sono composti da materiali derivanti dal silicio che posseggono le caratteristiche alla base dell’elettronica, essendo componenti fondamentali dei microprocessori. In un’epoca in cui quasi ogni settore industriale è parzialmente o totalmente computerizzato, e dove la comunicazione ha raggiunto la sua massima espansione, oggetti piccoli e apparentemente di scarso valore come i transistor o i diodi rappresentano il volano per un’economia avanzata, nonché il mezzo per dominare il futuro.
Ne sono fin troppo consapevoli gli Stati Uniti, pionieri del settore e da molti anni impegnati a mantenere questo primato tecnologico. Che, tuttavia, si va assottigliando di anno in anno. Secondo studi della Semiconductor Industry Association (Sia) americana, oggi servono 50 miliardi di dollari di incentivi federali per mantenere questo standard e far sì che la produzione di chip resti negli Stati Uniti, senza dover cedere il passo alla Cina o essere costretti a delocalizzare. La sfida centrale per il dominio tecnologico è tutta qui. Si consideri che il settore dei semiconduttori vale oggi ben 400 miliardi di dollari. E che 50 miliardi di investimenti porterebbero alla creazione sul suolo statunitense di circa venti fabbriche e non meno di 70 mila nuovi posti di lavoro ad alto valore aggiunto entro i prossimi dieci anni. Ma come fare, quando costruire nuovi stabilimenti e avviare una produzione ex novo in Occidente costa il 30% in più rispetto a luoghi come Taiwan, Corea del Sud e Singapore? E il 50% in più rispetto alla Cina? È anche così che si spiega la guerra di dazi elevata all’ennesima potenza dall’Amministrazione Trump, che Joe Biden erediterà e dalla quale probabilmente non potrà sfilarsi molto diplomaticamente. Sui semiconduttori, in particolare, si gioca una partita decisiva: già, perché sia le reti 5G, sia l’intelligenza artificiale che i computer per il calcolo quantistico sfruttano proprio i semiconduttori per evolvere e migliorare le proprie performance. Ne consegue che, chi sarà all’avanguardia nella produzione di questi componenti, dominerà tecnologicamente il pianeta in un futuro molto prossimo. Ad agitare i sogni del governo americano sono proprio quelle società tecnologiche produttrici di semiconduttori, come Huawei, Zte e Smic. Non a caso, le stesse realtà colpite dai dazi sin dai tempi della presidenza di Barack Obama: quando, ad esempio, Huawei venne esclusa dagli appalti pubblici in America.
A peggiorare il sentore americano è anche il fatto che dal Plenum del Partito Comunista è emerso anche un ambizioso piano militare cinese. Intanto, le cifre per il 2020 destinate al comparto difesa parlano da sole: +6,6% rispetto al 2019. Se visti nella loro globalità, questi numeri non possono che spaventare: le spese della difesa del gigante asiatico sono passate dai 14,6 miliardi di dollari del 1999 ai 177,6 miliardi nel 2019. Come a dire che da tempi del leader Deng Xiaoping il bilancio militare di Pechino è in continua espansione. Se è vero che nel settore delle forze armate le linee guida del cambiamento sono digitalizzazione, meccanizzazione e integrazione dell’intelligenza artificiale, altrettanto vero è che la Cina medita una forma di guerra ibrida, tale per cui ogni mezzo civile può essere immediatamente riconvertito.
Questa dottrina si esplicita, ad esempio, nella scelta di costruire navi mercantili già fornite di soluzioni adatte per soddisfare esigenze belliche. Già oggi, infatti, le nuove navi civili che trasportano container potrebbero fornire supporto all’esercito e alla Marina diventando «forze di supporto». L’obiettivo finale è pertanto non essere più soltanto una potenza egemone nel Mar Cinese Meridionale e intorno a Taiwan, ma assurgere entro il 2050 al ruolo di superpotenza globale. In definitiva, dunque, la Cina di Xi Jinping getta la maschera e mostra al mondo il suo volto più determinato di sempre. Lo conferma Antonio Selvatici, giornalista e docente di Intelligence economica presso l’Università degli Studi di Tor Vergata: «La Cina sta semplicemente attuando un complesso piano multidisciplinare, che la renderà in pochi anni sempre meno dipendente dalle forniture estere, come una sorta di autarchia». Il Plenum ha infatti stabilito più fondi per infrastrutture e comunicazioni, ma anche una base più solida per l’agricoltura, essendo la trasformazione verde della produzione e dello stile di vita una necessità imprescindibile per il Paese che ha in assoluto le acque più inquinate del mondo (il 70% è contaminato) e dove ancora oggi non meno di 20 milioni di cinesi non hanno accesso all’acqua potabile. Quanto invece ai benefici che ne trarranno i Paesi nell’orbita della Via della Seta, quelli sono ancora tutti da dimostrare.
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