Gli USA dopo 13 anni lasciano la Somalia in balia di Al Qaeda. Il rischio è che il Paese finisca nelle mani del gruppo islamista Al-Shabaab (MDD 13.12.2020)

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha ordinato negli scorsi giorni il ritiro di quasi tutte le truppe statunitensi dalla Somalia, un disimpegno che dovrà realizzarsi entro il 15 gennaio 2021. Gli Stati Uniti sono presenti nel martoriato Paese africano con circa 700-800 soldati che affiancano i militari somali nella lotta contro le milizie degli Al-Shabaab, a loro volta affiliati ad Al Qaeda, e alle milizie dello Stato Islamico. Secondo alcuni funzionari del Pentagono una parte delle truppe si trasferiranno in Kenya e in Gibuti da dove agiranno con operazioni transfrontaliere ma su questo permangono molti dubbi. Lo scorso novembre, i funzionari della Difesa americana avevano confermato le indiscrezioni secondo cui le forze americane sarebbero state ulteriormente ridotte sia in Afghanistan che in Iraq. Per quanto riguarda l’Afghanistan i soldati effettivi saranno ridotti da circa 5.000 a 2.500 entro la metà gennaio mentre in Iraq gli uomini sul campo passeranno da 3.000 a 2.500. Una decisione che ha spiazzato le autorità somale.

Atto “estremamente deplorevole”

Il senatore Ayub Ismail Yusuf ha parlato della decisione americana come di un atto ‘estremamente deplorevole’ ricordando di come gli Usa “abbiano fornito un enorme contributo all’addestramento e all’efficacia operativa delle truppe somale”. Il senatore si riferisce agli uomini della “Ciidamada Danab”( Brigata dei fulmini) o Lightning Brigade, una forza di fanteria/commandos dell’esercito nazionale somalo composta da 3.000/3.500 uomini che ha dato prova di grande capacità militare contro Al-Shabaab.

Un rapporto travagliato

Un rapporto travagliato quello tra USA e Somalia dove gli americani arrivarono nel 1993 nell’ambito dell’operazione “Restore Hope”: disastrosa missione passata alla storia per la battaglia di Mogadiscio, uno scontro di vaste proporzioni svoltosi nella capitale somala tra il 3 ed il 4 ottobre del 1993, nella quale gli americani alla fine contarono 19 morti (5 membri del 160th SOAR, 6 della Delta Force, 6 ranger, 1 del 14° Infantry Regiment e 1 della 10th Mountain di soccorso). Dopo le furibonde polemiche esplose negli States all’indomani della battaglia e all’ondata di sdegno che attraversò gli USA quando vennero diffuse le immagini dei corpi dei militari americani trascinati per le strade di Mogadiscio come trofei, gli USA nel 1994 si ritirarono per poi ritornare a Mogadiscio nel gennaio 2007. Da allora hanno condotto numerosissime operazioni con aerei e droni sia in Somalia che nei Paesi confinanti contro le milizie degli Al-Shabaab (la gioventù) che possono contare tra i 7.000 e 9.000 combattenti. La decisione di Donald Trump non arriva certo improvvisa dopo che durante la sua campagna elettorale del 2016 aveva promesso “di ritirare gli Stati Uniti dalle guerre infinite”.

L’ordine di Trump di ritirare le truppe americane dalla Somalia ha provocato anche il licenziamento dell’ex Segretario alla Difesa degli Stati Uniti Mark Esper in completo disaccordo con il Presidente sul ritiro dalla Somalia, ma non solo, la decisione è stata criticata anche dal comando di AFRICOM con sede a Stoccarda (Germania), che è uno degli 11 Comandi combattenti del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, che ha sottolineato come come gli Al-Shabaab continuino ad essere una minaccia non solo per la Somalia ma anche per gli Stati Uniti. A tal proposito non sono pochi gli esperti di antiterrorismo che temono che la Somalia abbandonata dagli USA, potrebbe diventare una sorta di emirato islamico con gli Al-Shabaab o il luogo ideale per far nascere lo Stato Islamico 2.0 per l’ISIS. Di Somalia ne abbiamo parlato con Rocco Bellantone giornalista di “Nigrizia” e analista di Nord Africa e Africa Sub-sahariana.

 Cosa pensa di questa decisione assunta da Donald Trump in un momento nel quale gli Al-Shabaab continuano a minacciare la Somalia e i Paesi confinanti? La decisione di Donald Trump è in linea con la strategia del graduale ritiro di truppe statunitensi impegnate nei vari teatri di guerra del Medio Oriente. È una promessa che Trump aveva fatto durante la campagna elettorale del 2016 che lo portò alla vittoria sulla candidata democratica Hillary Clinton, e che l’oramai ex Presidente ha in effetti mantenuto. In realtà, però, come ha spiegato in una nota il Pentagono, in Somalia cambierà “lo spiegamento delle forze in campo ma non cambia la politica degli Stati Uniti”. La lotta ad Al Shabaab era e continuerà a essere sostanzialmente in capo alla Cia e al suo braccio militare Black Ops. Spetta a questo Corpo Speciale eliminare i capi dei gruppi terroristi operativi in Somalia e nelle altre aree calde del Corno d’Africa. Con il cambio di guida alla Casa Bianca, la domanda da porsi adesso tanto in Africa quanto soprattutto in Medio Oriente, è se e come cambierà la strategia di contrasto al terrorismo internazionale con Joe Biden come nuovo Presidente. Bisognerà insomma capire se e come Biden deciderà di proseguire l’exit strategy militare tracciata a livello globale da Trump, che passa per la delega delle crisi estere agli alleati in loco (vedi gli Accordi di Abramo in Medio Oriente) o se punterà a rispolverare l’interventismo sfrenato che ha contraddistinto gli otto anni di mandato di Barak Obama (vedi Iraq, Siria e Libia).

Da dove trae la propria forza questo gruppo jihadista affiliato ad Al Qaeda responsabile della morte di migliaia di persone? Perché la gente non gli volta le spalle? Più dei nigeriani di Boko Haram, Al Shabaab rappresenta il gruppo jihadista africano più letale. E questa formazione, a differenza di molte altre in Africa – compresa Boko Haram – sembra riuscire a gestire a proprio piacimento la guerra per la leadership jihadista nel continente tra Al Qaeda e ISIS piuttosto che lasciarsi travolgere da essa. In oltre dieci anni di offensive il gruppo jihadista è stato scacciato da Mogadiscio e dalla sua roccaforte di Kismayo. Ma oggi continua a tenere sotto scacco vaste aree della parte centrale e meridionale del Paese, sferra attacchi mortali con disarmante sistematicità nel centro della capitale rimanendo una spina nel fianco anche per i Paesi limitrofi alla Somalia. Per quanto riguarda i motivi di questo potere, si sbaglia chi pensa che sia la religione, e dunque l’Islam, a spingere questi giovani nelle braccia dei terroristi. Tra i fattori all’origine dell’avvicinamento dei giovani all’estremismo radicale violento degli jihadisti figurano semmai povertà, corruzione, disoccupazione, emarginazione sociale, proliferazione delle bande criminali, violazione dei diritti umani, ma anche il fallimento del governo nel garantire alla popolazione i servizi primari.

Cosa accadrà ora a Mogadiscio? La Somalia è da anni ormai uno “Stato fallito” nonostante gli aiuti economici e militari che continuano ad arrivare a pioggia sul Paese senza che dietro via sia una precisa regia. Vale tanto per quello che sta facendo l’ONU, quanto per quello che fanno l’UE o l’Unione Africana. Il Governo fragilissimo guidato dal presidente Mohamed Abdullahi Mohamed, detto Farmajo, è pertanto destinato a rimanere ostaggio della minaccia jihadista da un lato e, dall’altro, del gioco di influenze condotto nella capitale e per il controllo dei suoi importanti hub portuali da Ankara e Doha da un lato e dagli Emirati e dall’Arabia Saudita dall’altro. Ankara da anni è uno dei maggiori investitori stranieri in Somalia. Il cambio di passo risale al 2011, quando Erdogan atterra insieme alla sua famiglia in una Mogadiscio devastata dalla guerra civile e dalla carestia e sotto la minaccia dei qaedisti di Al Shabaab. Dai 250 milioni di dollari donati allora per aiuti umanitari la Turchia non si è più fermata. In questi anni sono state costruite strade, scuole e ospedali e destinate borse di studio a centinaia di giovani. Al soft power sono presto seguiti investimenti nel porto di Mogadiscio, gestito dal gruppo turco Al-Bayrak da settembre 2014, e nell’aeroporto internazionale Aden Adde, ricostruito dalla Turchia e dove oggi Turkish Airlines è la prima compagnia aerea a operare. A Mogadiscio c’è inoltre la più grande Ambasciata turca all’estero e sempre qui, nell’ottobre scorso, Ankara ha aperto la sua più estesa base militare all’estero. La Somalia rischia di rimanere schiacciata in questo gioco al rialzo.

Dove ha sbagliato l’Occidente nei suoi interventi in Somalia sia prima con Siad Barre che dopo, e dove è mancato il popolo somalo? Come ho detto prima, l’errore principale della comunità internazionale è di continuare a investire soldi e militari in uno Stato che, di fatto, è clinicamente fallito, pensando a trovare voci che giustifichino queste spese piuttosto che mettere su una regia comune per provare a sanare anche solo minimamente le ferite della Somalia. Le missioni tanto dell’Onu quanto dell’Unione Africana sono lo specchio di questa mancanza di strategia. La missione Amisom (African Union Mission in Somalia), avviata nel 2007, avrebbe dovuto consegnare entro il 2020 le chiavi della sicurezza del Paese all’esercito somalo. Ma questa scadenza non è stata rispettata. Al momento sono 19.600 i soldati e un migliaio i poliziotti di Uganda, Burundi, Gibuti, Kenya ed Etiopia lasciati in prima linea a difendere il destino di uno Stato praticamente fallito. E in mezzo c’è anche l’Italia che in Somalia dal 2010 contribuisce con 120 militari alla missione europea EUTM (European Union Training Mission), nell’ambito di un piano di messa in sicurezza del Corno d’Africa che vede la nostra Marina impegnata nelle operazioni Atalanta ed Eucap Somalia (Ue) e Ocean Shield (Nato) per contrastare la pirateria al largo delle coste somale. Lo spettro della Somalia, dove i nostri militari sono costretti a rimanere chiusi nelle basi per la furia jihadista di Al Shabaab, è l’emblema del fallimento di un assistenzialismo militare che in Africa non ha né risolto crisi né portato la pace.

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