La Nuova Vita di Lady Isis ( Panorama 14.01.2021)

di Stefano Piazza- Luciano Tirinnanzi

Si chiama Fatin al-Mandlawi. Era una jihadista, combatteva per lo Stato Islamico in Siria, nella famigerata Brigata Al Khansa, una sorta di buoncostume tutta al femminile dell’Isis. Come le altre, svolgeva compiti di polizia, reclutamento e gestione delle foreign fighters per il Califfato. In breve, ne divenne il capo. Davanti ai suoi occhi sono state compiute atrocità e sevizie di ogni genere. Diceva che avrebbe voluto farsi saltare in aria. Invece, oggi è una tranquilla casalinga di Göteborg, che vive vendendo pacchetti online di auto indottrinamento alla religione maomettana. Ha 33 anni, sfrutta Internet e la creduloneria, ma anche i servizi sociali della Svezia. Dove ha fatto ritorno nel 2017, senza passare da alcun tribunale. Non ha ricevuto neanche una multa per il suo passato da terrorista, ma l’assegno dell’assistenza sociale, quello sì.

Come è stato possibile? A dar retta ad Hanif Bali, membro del Partito Moderato, formazione politica di centrodestra oggi all’opposizione, «la Svezia oggi è diventata ciò che l’Argentina era per i nazisti. Solo che, dopo la seconda guerra mondiale, laggiù hanno approvato una legislazione retroattiva e fatto condannare i nazisti. Noi no».

Fatin al-Mandlawi, «terrorista di ritorno» ma in possesso di un passaporto, ha potuto fare rientro senza neanche passare un giorno in galera: su di lei, infatti, i magistrati svedesi hanno dovuto ammettere la «mancanza dell’onere della prova». Eppure, se ci sono molte testimonianze sui suoi misfatti e persino molte foto. Ciò nonostante, i giudici non hanno ritenuto opportuno procedere oltre. Così, ora Fatin al-Mandlawi vive con i suoi due figli ad Angered (Göteborg), sotto la nuova l’identità di Fatosh Ibrahim.

Nata in Iraq, è la quinta figlia della famiglia al-Mandlawi, che si era trasferita in blocco a Eskilstuna e poi a Göteborg allo scoppiare della prima guerra del Golfo. Fatin in Svezia conduce un’esistenza normale e trascorre il tempo libero in discoteca. Ma nell’autunno 2012 suo fratello maggiore, Hassan, parte per la Siria e si unisce al fronte al-Nusra, la più potente formazione jihadista dell’opposizione siriana. Agli inizi del 2013 Fatin è una delle prime donne svedesi partite per la Siria; raggiunto il fratello a Raqqa, la capitale dell’Isis, le viene assegnato un ruolo nella Brigata Al Khansa.

Hassan riesce a tornare in Svezia nel 2015. Ma, a differenza della sorella, viene condannato all’ergastolo per crimini terroristici, dopo che sarà provato il suo coinvolgimento nella decapitazione di due operai che lavoravano per una compagnia petrolifera siriana.

A Raqqa, intanto, Fatin ha cambiato nome in Umm Fidah. Dopodiché sposa un foreign fighter: un cittadino inglese che fa a tempo a darle una figlia nel 2013, prima di morire in battaglia pochi mesi dopo. La situazione in Siria si va complicando giorno dopo giorno, ma lei non manifesta alcuna intenzione di tornare in Svezia per dare un futuro migliore alla bambina appena partorita sotto le bombe. Al contrario, in poco tempo si fa strada nella Brigata femminile, convincendo molte giovani donne europee a recarsi nel Califfato.

Secondo il ricercatore Magnus Ranstorp, ​​diventa «una figura chiave nel lavoro di reclutamento dell’Isis; era molto aggressiva ed estremamente brutale. Brutale in termini di convinzione ma non solo, ci sono anche foto di lei mentre usa le le armi». Nessuno sa come sia stata messa alla testa della Brigata Al Khansa; ciò nonostante, lei stessa commenta l’evento con un post su Facebook: «Non possiamo che fondare una brigata per sole sorelle e combattere i maiali e pregare per il martirio».

Sullo stesso social di lei si trovano molti altri commenti agghiaccianti, e persino una foto che la ritrae al centro di una piazza, mentre a terra tutt’intorno giacciono i corpi di persone decapitate. Lei posa (sia pure velata) appoggiata a una recinzione, dov’è infilzata una testa mozzata. Questo il suo commento: «Che cosa? Stai parlando con me? Oops non hai testa! Questo è quello che facciamo con i soldati di Bashar», in riferimento a Bashar Al Assad, presidente della Siria.

Anne Speckhard, che insegna psichiatria alla Georgetown University e dirige l’International Center for the Study of Violent Extremism (Icsve), chiarisce a Panorama il ruolo della terrorista: «Al-Khansa aveva il compito di garantire che le donne che vivevano nell’autoproclamato Califfato rispettassero la rigida legge della Sharia. L’attuale comandante del gruppo, tutto al femminile, è conosciuta come Aum Mariam al-Faransi. La maggior parte del battaglione Al-Khansa è composta da straniere provenienti dall’Europa, la maggioranza delle quali parla francese. Il gruppo ha anche membri provenienti dal Medio Oriente e dal Nord Africa, tra le quali  le tunisine sono la parte più numerosa, ma c’è anche un piccolo numero di donne siriane e irachene affiliatesi alla brigta al-Khansa». E saranno proprio queste ultime a scalare i vertici della Brigata. Sotto il suo comando, Fatin al-Mandlawi conta tra le 60 e le 70 donne: ciascuna di loro riceve un addestramento militare, persino rudimenti d’intelligence, e viene equipaggiata con fucili Kalashnikov e granate; inoltre, deve superare un addestramento per apprendere come assemblare giubbotti esplosivi e come realizzare silenziatori per armi da materiali di base, nonché tecniche per eseguire omicidi all’arma bianca. Il campo di addestramento principale di questo battaglione sarà rivelato in seguito alla riconquista di Raqqa: si tratta di un istituto scolastico di fronte a una famosa panetteria, al-Fardus Bakery (entrambi saranno rasi al suolo nel 2017).

Prima che questo accada, Fatin fa in tempo a sposare un altro foreign fighter australiano (oggi in carcere a Canberra) che le dà un secondo figlio. È a questo punto che decide che è ora di tornare in Svezia. Siamo a ottobre 2017, la capitale del Califfato Raqqa è appena caduta, e i jihadisti fuggono verso il confine siro-iracheno. Ma non lei.

Del resto, ha un passaporto svedese e sa bene che il sistema di accoglienza del Paese nordico adotta una politica molto tollerante con i suoi cittadini: a fronte di una popolazione di circa 10 milioni di abitanti, dal 2013 il governo di Stoccolma ha accolto più di 800 mila migranti e concesso il ritorno di ben 150 terroristi dell’Isis, famiglie comprese. Molti altri sono ancora oggi nel campo di al-Hol, nella Siria nord-orientale, dove già alle prime avvisaglie della guerra civile si erano riversate circa 64 mila persone, delle quali poco meno di diecimila provenienti dall’Europa. Dal 2012, si stima che complessivamente circa 300 svedesi si siano recati in Siria e Iraq per unirsi a gruppi terroristici, il 76% uomini e il 24% donne. A settembre 2016, erano tornati in Svezia 106 combattenti stranieri (il 40%), mentre altri 112 (42%) erano ancora in Siria o Iraq. Si stima che 49 dei 267 (18%) siano deceduti nel conflitto.

Ha invece fatto ritorno Osama Krayem, svedese di origine siriana coinvolto negli attentati di Parigi del 2015 e in quelli di Bruxelles (dove è stato arrestato) del 2016: come Fatin, era tornato in Europa attraberso la rotta dei migranti dalla Siria alla Turchia passando poi per Leros (Grecia), dove si era presentato il 20 settembre 2015 con un passaporto falso a nome Naïm Al Hamed. Almeno lui è rinchiuso in carcere a Parigi, da dove non uscirà mai più. Ma quanti altri jihadisti addestrati a uccidere e seminare morte sono potuti rientrare impunemente?

Questo è il modo in cui l’Europa ritiene di potersi affrancare dalla minaccia del terrorismo islamico? Anche la Svezia ha pagato il proprio tributo di sangue, subendo un attentato il 7 aprile 2017, quando un camion si è scagliato contro la folla e ha ucciso cinque persone. Eppure, molti ex terroristi e foreign fighters oggi hanno pieno titolo a mischiarsi tra la popolazione svedese, come se niente del loro passato li riguardasse. È quella che il criminologo Franco Posa ha chiamato «malattia culturale». Una di cui anche le istituzioni Ue sembrano essere affette.

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