Quando lo 007 cambia Bandiera (Panorama 06.04.2021)

di Stefano Piazza- Luciano Tirinnanzi

L’ufficiale della Marina militare italiana arrestato dopo aver passato documenti segreti Nato a un ufficiale delle forze armate russe, è solo l’ultimo di una lunga serie di spie che tradiscono il proprio Paese. In Italia non accadeva da tempo, anche se Roma è sempre stata terra di mezzo dello spionaggio internazionale, come un tempo lo fu Berlino. E come oggi lo è Teheran, dove lo scambio d’informazioni riservate qui può provocare o impedire direttamente lo scoppio di conflitto armato. Cinque mesi fa nella capitale iraniana moriva Mohsen Fakhrizadeh, direttore generale del programma Amad («speranza») per il nucleare della Repubblica islamica. È stato ucciso con una mitragliatrice «intelligente» azionata a distanza, che ha crivellato di colpi l’auto dello scienziato e poi si è autodistrutta.

L’operazione è stata la più complessa mai organizzata dal Mossad israeliano contro un singolo nemico. E si è concretizzata grazie a spie di nazionalità iraniana: uomini che, stanchi del regime dittatoriale di Teheran, sono passati dalla parte di Gerusalemme. Il loro ruolo – che non può essere confermato ufficialmente (così come l’intera operazione, di cui nessuno si è assunto la paternità, né probabilmente lo farà mai) – ha consentito a Israele di eliminare il personaggio chiave del piano segreto per l’atomica che gli ayatollah inseguono da decenni. Per otto mesi, i doppiogiochisti iraniani hanno «respirato con lui, si sono svegliati con lui, hanno dormito con lui, viaggiato con lui: sapevano anche quale dopobarba usava» ha rivelato una fonte al quotidiano britannico Chronicle. Aggiungendo che «grazie a Dio tutti i nostri agenti sono riusciti a uscire, nessuno è stato preso, non ci sono neanche arrivati vicino».

«Defezionare», questo il termine tecnico del cambio di bandiera, non è tipico però solo dell’agente segreto. «Lo è anche dello scienziato o del funzionario diplomatico. Solitamente, si passa al nemico quando si pensa di essere in pericolo o perché si è stati scoperti a tradire lo Stato cui si è giurata lealtà» precisa Alfredo Mantici, ex direttore del Dipartimento analisi strategica del Sisde, il nostro servizio segreto interno. «Questo però non è un termine di uso militare, attiene più agli agenti civili infiltrati in campo avverso. Passare alle linee nemiche, per i soldati, prende invece il nome di diserzione».

«Disertare» è tecnicamente definito l’abbandono senza autorizzazione del reparto di appartenenza o il mancato rientro al termine di un’assenza programmata. Un comportamento punito dal codice militare di guerra con la fucilazione. Dunque la deterrenza è notevole, «e difatti in Italia non si verifica dai tempi di Caporetto» conclude Mantici.

Nella Grande guerra, i tribunali militari processarono ben 262.481 soldati italiani. «In questa moltitudine di procedimenti» si può leggere nel documento parlamentare delle commissioni Difesa e Giustizia di Montecitorio «4.028 si conclusero con la condanna alla pena capitale». A oggi risulta che almeno 750 soldati italiani finirono fucilati da un plotone d’esecuzione, altri 350 vennero giustiziati sommariamente. La pena di morte per diserzione è stata abolita solo nel 1994 (dall’articolo 1, Legge 13 ottobre n. 589), quando alla fucilazione si è sostituita la pena massima prevista dal codice penale.

In Iran, invece, è ancora in vigore. Prova ne sia il caso dello scorso giugno, quando i Pasdaran hanno fucilato il «traditore» passato alla Cia Mahmoud Mousavi-Majd, che aveva fornito a Stati Uniti e Israele informazioni utili a condurre il raid con droni che ha eliminato il principe dei comandanti iraniani, il generale Qassem Soleimani. Un caso che ha portato Washington e Teheran sull’orlo dello scontro armato. Anche Teheran, però, vanta qualche importante reclutamento di spie tra le proprie fila, come dimostra la vicenda dell’americana Monica Witt. Il suo è uno dei casi di defezione più recenti e clamorosi: specialista del controspionaggio americano in forze all’aeronautica militare, ha disertato in Iran nel 2014 dopo essersi convertita all’islam. La Difesa americana l’accusa di spionaggio e cospirazione, per intrusioni informatiche e furto d’identità ai danni di otto colleghi dell’Air Force. Oggi, rivelano fondi della difesa Usa a Panorama, la Witt lavora nella cyber intelligence delle Guardie rivoluzionarie, tentando di carpire i segreti del personale militare statunitense.

Il suo tradimento è stato uno smacco enorme per la comunità d’intelligence Usa e fonte d’imbarazzo per la stessa presidenza Obama, che sul nucleare iraniano si è giocata buona parte della credibilità internazionale. Il suo doppiogioco ha rappresentato un fallimento al pari del caso di Edward Snowden. Il motivo? La sua fuga tra le braccia degli ayatollah ha bruciato l’intera rete americana che monitorava le capacità nucleari di Teheran. Da allora e fino a oggi, Washington è perciò «rimasta al buio», come si usa dire quando non si riescono a raccogliere più informazioni sul campo in un Paese straniero. Monica Witt non era una risorsa qualsiasi: aveva ricevuto l’Air medal per l’Iraq nel 2003, tre Commendation medal per atti di eroismo e altrettante per servigi resi in Arabia Saudita, in Grecia e Qatar. Insomma, una professionista dell’intelligence di quelle toste.

 

A reclutarla e a convincerla a disertare è stata un’altra donna: Melanie Franklin. Anche lei americana, convertita all’islam col nome di Marzieh Hashemi, giornalista e star della tv iraniana. Nel febbraio 2012, invitò Monica Witt a una conferenza organizzata dalla New Horizon Organization, di fatto una sorta di agenzia stampa del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche. La reclutò e poi la convinse a defezionare. A un anno e mezzo dal loro incontro, il 28 agosto 2013, Monica Witt salì su un volo che l’ha portata dritta a Teheran, per non fare più ritorno in America. Prima di salire a bordo, ha inviato un’email ai colleghi dell’Air Force, tanto per chiarire il senso del suo gesto: «Me ne vado. Torno a casa!».

John Demers, capo della divisione per la sicurezza nazionale del dipartimento di Giustizia, nel commentare la sua condanna in contumacia, ha dichiarato: «La sua defezione sottolinea i pericoli per i nostri professionisti dell’intelligence, e chiarisce fino a che punto i nostri avversari andranno a identificarli, esporli, prenderli di mira e, in alcuni rari casi, rivoltarli alla fine contro la nazione che hanno giurato di proteggere».

Va detto che gli agenti sul campo sono soggetti a una pressione psicologica enorme, e il rischio di smarrire le proprie convinzioni è un effetto collaterale di quel mestiere che è molto duro: poiché mettono a rischio la vita ogni giorno, devono essere spietati, cinici. Opportunisti. Fino al punto da valutare di tradire il proprio Paese. Ecco perché la defezione di un agente è il peggior incubo per un’agenzia d’intelligence. A seconda del livello dell’infiltrato, significa vedere compromessa la propria rete di spionaggio, smascherati i propri segreti e le strategie per la raccolta d’informazioni.

Così, in un solo giorno, per via di un rimorso di coscienza o più semplicemente per denaro, un lavoro di anni può andare perduto per sempre.

Lo stesso John le Carré, durante la Guerra fredda, quando lavorava per i servizi segreti britannici, fu a un passo dal grande salto oltre la «cortina di ferro». Lo rivelò lui stesso in un’intervista al Sunday Times: «Quando lavori intensamente come spia e finisci per avvicinarti sempre più a quel confine, ti sembra un piccolo salto. C’è stato un momento in cui sono stato veramente tentato» confessò il celebre scrittore. Per lui quella rimase un’idea, messa in atto esclusivamente nei suoi romanzi.

Molti altri, invece, quel limite lo hanno superato. Si pensi ad Alexander Litvinenko, agente dei servizi segreti russi: disertò riparando a Londra, dopo aver rivelato il piano del Cremlino per assassinare l’ex oligarca Boris Abramovic Berezovskij. Verrà «giustiziato» dall’Fsb – il servizio segreto russo – con crudeltà, con avvelenamento da polonio.

E si pensi al già citato Snowden, consulente della National security agency americana: rivelò pubblicamente i dettagli dei programmi top-secret di sorveglianza di massa del governo statunitense e britannico, prima di defezionare in Russia, dove tutt’oggi vive in regime di protezione speciale.

Insomma, in amore come in guerra il tradimento è un fatto doloroso ma consueto, perché è un comportamento umano. Come ha scritto sempre Le Carré, forse per giustificare a se stesso i propri pensieri «defezionisti»: «L’amore è qualsiasi cosa tu possa ancora tradire».

 @riproduzione riservata 

 

Leave a reply:

Your email address will not be published.

Site Footer