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Fa già caldo a Marsala la mattina del 2 giugno 1983 e un uomo cammina a passo spedito: si chiama Silvio Badalamenti ed è diretto verso l’esattoria dove lavora e non vuole fare tardi. È tranquillo perché nonostante il cognome che porta e che pesa come un macigno non ha nulla a che vedere con la mafia e con il male. È un padre affettuoso e un uomo gentile ma per lui è l’ultimo giorno della sua vita perché in quell’ufficio non ci arriverà mai; improvvisamente degli uomini lo affiancano e lo ammazzano al centro di una piazza di Marsala. Il male arriva e sommerge tutto, restano solo le lacrime di chi lo piange mentre a distanza chi ne ha decretato la morte festeggia magari durante un osceno banchetto. Chi sono? Sono i mafiosi corleonesi guidati da Salvatore Riina e Bernardo Provenzano (entrambi deceduti) che spazzano via tutti i loro avversari trasformando la Sicilia in un teatro di guerra dove trovano la morte magistrati, poliziotti, carabinieri, mafiosi veri e presunti, donne, bambini, parenti o supposti tali. È un massacro che annichilisce lo Stato che in Sicilia è marcio nelle sua fondamenta e che per questo fatica a reagire.
Chi è stato? Chi sono gli esecutori materiali? Da dove sono arrivati coloro che hanno ucciso Silvio Badalamenti senza pietà in pieno giorno strappandolo alla sua famiglia? Nessuno vede niente ed è la solita litania; “Guardi Dottore, non ho visto nulla ero girato dall’altra parte”– oppure – “ero appena andata via”. Storie di omertà e di paura, quella vera che ti fa asciugare la bocca. Silvio Badalamenti è li steso a terra e nemmeno il tempo di piangerlo che iniziano a girare (ad arte) le voci di coloro che dicono che è morto per i legami con lo zio Don Gaetano Badalamenti all’epoca capo della cupola mafiosa. È un classico della mafia quello di sporcare la figura di chiunque e non importa se la vittima è ancora lì in una pozza di sangue e per un po’ il fango ricopre Silvio la moglie Gabriella e le due figlie, Gloria e Maria. Ci vuole un cercatore di verità come Giovanni Falcone, a sua volta vittima di calunnie anche da parte di suoi colleghi diretti da “quelle menti raffinatissime” che lo faranno uccidere sull’autostrada di Capaci (Palermo) il 23 maggio 1992, per ridare a Silvio Badalamenti e alla sua famiglia ciò che è loro. Quest’uomo gentile e perbene ucciso in una piazza di Marsala, anche secondo le preziose testimonianze di alcuni pentiti, con la mafia non c’entrava nulla, anzi, si era sempre tenuto ben lontano dalle attività criminali della famiglia Badalamenti e lo aveva fatto ben sapendo che questo avrebbe potuto costargli ma l’uomo che aveva la schiena dritta aveva deciso di restare a vivere e a lavorare nella sua terra. Un incosciente? No, Silvio era una persona perbene, un cittadino e padre modello e un lavoratore. Per conoscere la sua storia e quella della sua famiglia bisogna leggere il libro della figlia Maria “Sono nata Badalamenti” (Ed. David and Matthaus) presentato lo scorso 10 luglio alla VII edizione del Festival letterario AG Noir di Andora (Savona) ma leggerlo non ci basta e così decidiamo di andare ad incontrare questa donna orgogliosa, dal sorriso contagioso e dalla malinconia struggente. La accompagna la sorella Gloria, che si tiene lontano dai riflettori per scelta ma che è un tutt’uno con Maria e te ne accorgi subito da come la guarda e da come la protegge.
Perché è morto vostro padre?
Perché Salvatore Riina e i corleonesi nella loro strategia del terrore decisero di uccidere chiunque potesse anche solo lontamente essere d’intralcio. Papà aveva capito cosa stava accadendo e nel 1983 per qualche mese, ci allontanammo dalla Sicilia ma poi ci disse “perché devo fuggire dalla mia terra come se fossi un mafioso, come se fossi un criminale? Io sono un uomo onesto” e così tornammo.
Che cosa significa chiamarsi Badalamenti?
Sia io che mia sorella da bambine non ci accorgemmo di nulla essendo cresciute in un contesto completamente diverso da quello mafioso, poi nel tempo abbiamo dovuto fare i conti con il pregiudizio e l’ostilità della gente che ti giudica da un cognome nonostante tutti sappiano che noi con la mafia non abbiamo mai avuto nulla a che fare. Io stessa fatico ancora a capire come le persone si facciano guidare ancora dal pregiudizio che non è casuale.
In che senso, che cosa intendi?
Il pregiudizio verso di noi è stato costruito a tavolino e ne ho avuto conferma anche da collaboratori di giustizia con i quali ho parlato. Intorno al pregiudizio e all’isolamento costruito attorno a noi si sono fatti accordi, interessi politici e interessi mafiosi. Mio padre decise di rimanere in Sicilia nonostante in quegli anni si uccidesse chiunque portasse il cognome Badalamenti. E questa è una scelta che io voglio ribadire, perché è un NO, seppure vissuto nell’intimità della famiglia, che lui disse alla mafia. Al ricatto dei Corleonesi che lo volevano via dalla sua terra nonostante fosse estraneo agli affari mafiosi. Disse NO ai Badalamenti che gli chiedevano favori e che lo volevano coinvolgere nei loro sporchi affari.C’è un episodio che mi ha colpito ascoltandoti e del quale parli nel libro: a soli sei anni tirasti addosso e di proposito a Don Tano Badalamenti un caffè bollente. Perché?Eravamo in campagna non ricordo se in estate o in primavera e venimmo invitati a pranzo da Don Tano con ilquale non ci si vedeva praticamente mai e con il quale la distanza era profonda, basti pensare che i testimoni di nozze di papà e mamma erano uomini delle Istituzioni. Mio padre aveva studiato dai gesuiti ed era laureato, non frequentava questi uomini lontani anni luce da lui. Nonostante questo andammo (e non ricordo il perché) a questo pranzo. Don Tano era lì seduto attorniato dai suoi uomini che ad un certo punto iniziarono a prendere in giro mio padre arrivando al punto di tirargli dell’acqua e non era per scherzo, era per disprezzo, era fatto per metterlo in ridicolo davanti a tutti ed io lo avvertii e fu così che andai dritta da Don Tano e gli tirai addosso il caffè che avevo preso per papà…Mentre i figli di Don Tano scorazzano a bordo di lussuose fuoriserie tu fai una gran fatica a tirare avanti e lotti ogni giorno contro il pregiudizio e le cattiverie gratuite delle quali sei vittima…Vedi, anche oggi ho avuto ho avuto una giornata amara. Amara di difficoltà economiche, di difficoltà di ogni tipo ma resto a Cinisi ( Palermo) perché ho questo animo per cui voglio alla fine avere ragione, perché so che ho ragione e quindi sono qui a lottare contro coloro che mi chiudono tutte le porte e mi fanno delle cattiverie come le recensioni negative, orrende e mortificanti sulle stanze del Bed & Breakfast del quale mi occupo. Tutte inventate e da questo non mi posso difendere perché è tutto organizzato. Poi arrivata a un certo punto non riesco più neanche a distinguere le cose che ti succedono per caso, quelle che accadono perché è giusto da quelle che ti fanno apposta. Sei così stanca e così provata che confondi la realtà con le paure. Ci vuole grande forza per sopportare tutto questo perché sembra di impazzire.
Chi può ridarti la serenità? Lo Stato ?
Sì, ma anche l’opinione pubblica perché io sono qua, sono da sola a combattere e mi scontro io quotidianamente con le porte chiuse. E quindi è ora che si prenda atto che non è giusto, che non è corretto tutto questo, che io avevo solo 9 anni, noi eravamo solo due bambine, non c’entravamo niente. Poi per tutta la vita ci siamo sentite dire: “Questo lavoro no perché ti chiami Badalamenti, questo no perché ti chiami Badalamenti”. Io sono sopravvissuta, sono ancora viva dopo tanto dolore e tanta amarezza, però sono stanca veramente. È ora che mi venga restituita la mia dignità.
La storia di Maria Badalamenti è stata rilanciata sui media attraverso la diretta Facebook ne“Il salotto di Germana”,dove Maria ha dialogato con Germana Zuffanti (ideatrice dello spazio virtuale che durante la pandemia ha animato numerose presentazioni di libri) ed il noto giornalista del Tg1 Paolo Di Giannantonio.