Alla Guerra delle Spie ( Panorama 04.08.2021)

di Stefano Piazza- Luciano Tirinnanzi

Una delegazione israeliana che sbarca in Egitto per raggiungere un accordo di scambio di prigionieri con Hamas. Una trattativa serrata tra Teheran e Washington sui prigionieri della «guerra fredda mediorientale» che si consuma intorno al nucleare. E ancora omicidi in Europa, colpi di Stato in Africa e nei Caraibi, rapimenti negli Usa e doppiogiochi lungo la via della Seta. Sta accadendo proprio ora.

Chi crede che Pegasus – il software-spia israeliano e ultimo ritrovato della tecnica che s’infiltra nei cellulari per carpire i dati dei «pezzi grossi» – e altre diavolerie da hacker siano armi vincenti per penetrare le «linee nemiche» e sconfiggere i servizi segreti stranieri, si sbaglia di grosso.

Non è certo su questo che si basa il «secondo mestiere più antico del mondo»: crederlo sarebbe una mistificazione della realtà che ruota attorno al mondo dell’intelligence. Chiedete alla giornalista e dissidente iraniana Masih Alinejad, vincitrice del Women’s Rights Award per «la lotta delle donne iraniane per i diritti umani»: scampata in passato a un primo tentativo di rapimento in Europa da parte della Vevak, la principale agenzia d’intelligence di Teheran, ne ha evitato un secondo nel cuore di New York soltanto lo scorso luglio, grazie alla prontezza dell’Fbi che ha scoperto e neutralizzato per tempo un commando attivatosi su ordine degli Ayatollah per tapparle la bocca. Come? Attraverso l’osservazione e il paziente lavoro del controspionaggio.

La Vevak da tempo si occupa di compiere azioni che un hacker non potrebbe mai fare: come silenziare politici, dissidenti, scrittori e intellettuali scomodi tanto in Iran quanto all’estero. E lo fa attraverso la «humint», ossia le risorse umane, che se necessario adottano ancora tecniche millenarie come rapimenti e omicidi. Che non conoscono confini o giurisdizione. E che hanno riportato un po’ ovunque nel mondo una «guerra di spie» sempre più spergiudicata.

Soprattutto in Europa, dove fonti dell’intelligence italiana da tempo segnalano un brulicare di «stazioni» – ovvero basi di osservazione dove si coordinano tutte le operazioni d’intelligence di un servizio segreto in un Paese straniero – e un significativo incremento di attività sotto copertura che, dalle ambasciate alle «case sicure», si diramano fin nelle mutande degli avversari politici meglio di uno spyware per smartphone.

Letteralmente nelle mutande: come avvenuto con Alekseij Navalny, l’oppositore del regime di Vladimir Putin che il 20 agosto 2020 è stato quasi ammazzato da un veleno letale applicato sull’intimo da parte di agenti dell’Fsb, l’agenzia erede del temibile Kgb di sovietica memoria.

Non è andata altrettanto bene all’imprenditore Nikolai Glushkov, finito nel mirino dei servizi di Mosca nel 2018, e trovato cadavere nel suo appartamento di Londra, strangolato con un collare per cani. Né a Dmitry Obretetskiy, influente imprenditore ucciso da un pirata della strada nel 2019 nella campagna londinese. O all’oligarca russo Boris Berezovski, ex eminenza grigia del Cremlino. E nemmeno al miliardario Dmitry Bosov, e a molti altri ancora. Oppositori, oligarchi, persino giornalisti. Tutti accomunati dall’aver flirtato con il «nemico» ed eliminati fisicamente per questa ragione.

Se il metodo dell’eliminazione fisica è una costante dei servizi segreti russi, in realtà è comune a molti altri Paesi: tutti ricordano la vicenda di Jamal Khashoggi, il giornalista saudita entrato in conflitto con la casa regnante di Riad e scomparso dentro l’ambasciata di Istanbul. Ed è nota la determinazione del Mossad israeliano, che dal 2010 in avanti ha «neutralizzato» almeno una decina tra scienziati e ufficiali iraniani che si occupavano del programma nucleare di Teheran.

Meno noti sono però gli omicidi a firma degli Ayatollah. Valgano su tutti quello di Masoud Mawlawi Vardanjani, ex funzionario della difesa iraniano, ucciso a Istanbul due anni fa da uomini mascherati; e ancoraprima l’assassinio dell’editore Saeed Karimian, ucciso in un quartiere bene di Istanbul insieme a un socio in affari kuwaitiano. Entrambi colpevoli di aver fatto propaganda contro la Repubblica islamica.

Gli agenti segreti mediorientali sono maestri nelle tecniche di rapimento: il Mit, ad esempio, il servizio turco, può contare su una vastissima rete di spie in giro per l’Europa. È in questo modo che rimpatriano indisturbati decine di oppositori curdi ogni anno. Specialmente dalla Germania, dove il Mit vanta una rete di oltre mille agenti operativi che infiltrano le università, le piazze della protesta e persino i luoghi di lavoro, fotografando e registrando tutto meticolosamente.

Invisibili ma non meno spietate sono le spie cinesi, attive in Europa attraverso reti di copertura impenetrabili: valga l’esempio di Xinjiang Jin, ancora oggi ricercato per cospirazione internazionale contro il governo degli Stati Uniti. Su ordine di Pechino, si sarebbe nascosto nel vecchio continente ed è quindi sparito dai radar.

I cinesi sono specializzati soprattutto in spionaggio industriale e truffe finanziarie, grazie a insospettabili cittadini che si aggirano indisturbati tra l’Europa e l’Africa grazie a doppi passaporti: per lo più cinese e di Singapore, o cinese e nordcoreano. Così ha agito fino ad aprile di quest’anno anche Kwek Kee Seng, grande riciclatore di denaro che ha indirizzato somme milionarie verso Pyongyang e ha poi fatto perdere le proprie tracce lungo la via della Seta. Non mancano fughe al contrario: come quella del Jo Song-gil, incaricato d’affari dell’ambasciata nordcoreana a Roma, che ha disertato alla fine del 2018 ed è fuggito negli Stati Uniti passando per la Svizzera grazie a una rete di sostegno occidentale.

Anche se il più grande colpo degli ultimi tempi nel campo dell’intelligence resta la diserzione dell’ex capo del controspionaggio di Pechino e viceministro in forze al ministero della Sicurezza cinese, Dong Jingwei. A metà febbraio di quest’anno è atterrato a Los Angeles, dove lo aspettavano dei funzionari Usa cui Jingwei ha consegnato molti dossier cari a Pechino, comprese le attività nel laboratorio di Wuhan, al centro della controversia sulle origini della pandemia.

Mentre la spia più ricercata oggi è senz’altro Yevgeniy Prigozhin, a capo del famigerato Wagner Group, la milizia privata russa responsabile delle peggiori brutalità nei teatri di guerra dov’è impegnata Mosca. Proprietario della Internet Research Agency (Ira), la «fabbrica dei troll» di San Pietroburgo, è l’uomo al centro delle molteplici operazioni di disturbo nei processi elettorali di Paesi come gli Stati Uniti e l’Unione europea.

E Roma? Dopo la sparizione nel nulla del professore maltese Joseph Mifsud, l’uomo chiave del Russiagate che bazzicava l’università capitolina Link Campus, si è distinto per spionaggio industriale ai danni della Avio Aero Alexander Korshunov, oligarca russo arrestato a Napoli nel 2019 e poi rispedito a Est grazie a un accordo tra governi. Mentre lo scorso aprile è stato arrestato per spionaggio un ufficiale della Marina italiana: Walter Biot vendeva documenti segreti della Nato ai russi, così come prima di lui avevano fatto il ricercatore estone Tarmo Kõuts, in favore dell’intelligence cinese, e molti altri. Tutti motivati dal denaro. Ed è forse questa l’unica grande differenza col passato, dall’ideologia si è passati al denaro.

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