di Stefano Piazza- Luciano Tirinnanzi
A nove mesi dall’uccisione del nostro ambasciatore e del carabiniere Vittorio Iacovacci le indagini sono ferme. Anzi, non sono mai davvero partite. La Repubblica Democratica del Congo non collabora e l’Onu finora non ha fatto nulla per scoprire i mandanti dell’agguato. Così anche la Farnesina ha le mani legate.
La verità è morta a Kinshasa. Nessuno la vuole, né la cerca più. Sono trascorsi nove mesi dalla morte dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e del loro autista congolese Mustapha Milambo, assassinati la mattina del 22 febbraio scorso nella Repubblica Democratica del Congo, ma le indagini sono a un punto morto. Secondo alcuni, volutamente. «I congolesi hanno di fatto abbandonato le indagini, sperando che il caso finisca nel dimenticatoio. Anche se non ufficialmente, stanno coprendo le tracce» è la rivelazione di una fonte inquirente riservata.
La conferma indiretta arriva dal Ros dei Carabinieri. Gli esperti dell’Arma vorrebbero recarsi nei luoghi dove si è verificata l’imboscata per espletare quelle attività tecniche indispensabili all’indagine italiana, ma restano in attesa di ricevere le autorizzazioni da parte del governo della Repubblica Democratica del Congo e delle Nazioni Unite, che dovrebbero occuparsi della loro sicurezza.
Che non è affatto garantita: non solo nell’area di Kibumba (luogo dell’agguato) gli attacchi contro la missione Monusco dell’Onu si susseguono nel silenzio o quasi dei media internazionali, ma il Ros non può neanche svolgere le indagini in uno Stato estero senza l’autorizzazione del governo locale, così come anche l’Onu dovrebbe essere autorizzata da Kinshasa a operare per garantire la sicurezza degli inquirenti italiani. Ma tutto questo non avviene. La pratica è bloccata chissà dove, perché non si accetta che né l’Onu né tantomeno gli inquirenti italiani facciano luce sull’accaduto.
E così niente timbri sulla rogatoria internazionale né prove balistiche, nessun riscontro su tabulati o celle telefoniche, niente interrogatori o altro. Come a dire che il Congo al momento è off limits per l’Italia. Tutto ciò mentre l’Isis lo scorso 5 novembre ha attaccato nuovamente i caschi blu delle Nazioni Unite che stavano scortando un convoglio di civili nel villaggio di Kabrique, nel territorio di Irumu. Gli aggressori hanno ucciso otto persone e ne hanno ferite altre 11, bruciato due veicoli e rubato merci.
Anche la Farnesina mantiene uno stretto riserbo sul caso. Il ministero degli Esteri non ha dichiarazioni in merito, se non per bocca del suo titolare, Luigi Di Maio, che si è limitato a definire l’omicidio Attanasio «uno choc per tutta la Farnesina». Senza però provare a forzare la mano né a porre le condizioni dell’Italia alle autorità congolesi. Mentre dalla magistratura capitolina si riferisce che il nuovo capo missione italiano nella Repubblica Democratica del Congo ha solecitato in ogni modo le autorità locali affinché vengano eseguite le rogatorie già richieste e sia assegnata una missione del Ros in tutta sicurezza. Una sicurezza che al momento manca e Kinshasa non intende garantire, neanche per mezzo dell’Onu, che a sua volta tace sulla questione. Così, è ancora tutto è fermo.
E allora resta soltanto la moglie di Attanasio a chiedere a gran voce che sia fatta giustizia o, quantomeno, che si dica la verità su come sono morti due servitori dello Stato italiano. «In Italia le indagini sono in corso e io ancora ho fiducia, perché il nostro Paese ha perso due suoi figli, Luca e il carabiniere Vittorio Iacovacci, che lavoravano e rappresentavano l’Italia portando avanti i valori del popolo italiano. E questo lo hanno fatto fino all’ultimo istante della loro vita. Ma se sull’Italia non ho dubbi, che dire del Congo? Per quanto ne so io, le indagini per loro sono chiuse…» confida a Panorama con la voce rotta e piena di sconforto Zakia Seddiki, incredula per il silenzio che circonda la vicenda di suo marito.
«Mi auguro che le Nazioni Unite abbiano fornito e forniscano la massima collaborazione per individuare i responsabili di quanto accaduto. Ho però il timore che qualcuno possa avere qualcosa da nascondere e che non può essere detto. Spero tanto di no. Possiamo però farci la domanda sul terzo italiano che era con Vittorio e Luca quella mattina. Si chiama Rocco Leone e, mi chiedo, dov’è finito quello che per me è il vero testimone di ciò che successe? Perché è scomparso? Ha fornito tutti gli elementi di cui è certamente a conoscenza per consentire di ricostruire l’accaduto? Non aggiungo altro perché l’inchiesta è aperta, ma le mie sono domande lecite».
Domande cui nessuno può o intende rispondere. Come quella relativa a cosa esattamente ci facesse l’ambasciatore Attanasio il 22 febbraio 2021 nell’area intorno al villaggio di Kibumba, vicino alla città di Goma, e cosa aveva fatto nelle ore precedenti. Secondo Zakia Seddiki, «Luca era lì perché aveva risposto a un invito del Pam, il Programma alimentare mondiale dell’Onu, volevano mostrargli un progetto uguale a quello che sarebbe stato finanziato dalla cooperazione italiana in un’altra zona. La sera prima aveva incontrato a una cena ufficiale degli italiani che vivevano in quella zona della Repubblica Democratica del Congo. Detto ciò, non ho spiegazioni sul perché che quella mattina i protocolli di sicurezza non siano stati rispettati. Prima di partire Luca aveva chiesto mille volte “chi si occupa della sicurezza?”. Gli avevano risposto che la strada era sicura e che se ne sarebbe occupato proprio il Pam. Lui si è fidato di quello che gli era stato detto dai funzionari Onu».
Attanasio, peraltro, non aveva mai ricevuto minacce dirette o indirette: «Mai. Luca era sereno anche quella mattina, ci siamo sentiti telefonicamente 20 minuti prima di partire e non aveva alcun timore. A proposito delle miniere, su cui si è tanto fantasticato, è vero che si interessava alla questione ma solo in relazione alle persone che aiutavano i bambini sfruttati. Non indagava, non era certo il suo lavoro. Cercava di favorire progetti di cooperazione a beneficio di questi bambini. Nulla di più».
Nulla di più. Ma per quel nulla adesso l’ambasciatore è morto. E nessuno pare in grado di alzare la voce per andare a scoprire il perché. Soltanto Alberto Pagani, capogruppo del Pd in Commissione Difesa, ha provato a tracciare con Panorama l’unica strada percorribile a questo punto: «Serve un’azione politica forte, non tanto da parte del Parlamento quanto del governo, affinché si alzi il livello della questione e il caso Attanasio giunga fino a Bruxelles. L’Europarlamento è forse oggi il solo ente in grado di poter fare pressione su Kinshasa per costringere l’esecutivo congolese a garantire l’arrivo del Ros dei Carabinieri e a validare la scorta armata per mezzo dei dispositivi di sicurezza delle Nazioni Unite», che già operano in quel difficile contesto con le sopra citate missioni.
Il perché è evidente. Afferma l’esperto di terrorismo Franco Iacch: «Basti pensare che nella sola provincia settentrionale del Kivu si stima siano attivi oltre 45 gruppi armati. Tra questi, uno dei più violenti è rappresentato dalle Forze democratiche alleate (Adf), teoricamente riconducibili alla ramificazione dello Stato islamico nel Congo, anche se l’entità del rapporto tra l’Adf e lo Stato Islamico è oggetto di discussione». Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, «almeno 849 civili sono morti lo scorso anno negli attacchi dell’Adf nel territorio di Irumu e Mambasa, nella provincia di Ituri, e nel territorio di Beni, nella provincia del Nord Kivu.
Anche le forze regolari del Congo hanno commesso gravi violazioni dei diritti umani, in particolare dall’avvio delle loro operazioni militari contro l’Adf avvenuto il 30 ottobre del 2019. Tali violazioni hanno rafforzato la sfiducia della popolazione nei confronti delle forze regolari, alimentata dalle continue atrocità commesse dai gruppi armati». Fatti che hanno costretto il presidente congolese, Félix Tshisekedi, a dichiarare in più occasioni lo stato d’assedio di alcune aree del Paese.
Paradossale è che, in tutta questa vicenda, l’unico ad avere certezze sulla morte di Attanasio e Iacovacci sembra essere l’Isis. Commentando il livello di sicurezza del Congo in un canale Telegram, ecco cosa asserisce il gruppo terroristico: «La milizia cristiana Mai Mai concentra i suoi attacchi contro l’esercito congolese nella regione del Nord Kivu, a ovest e a sud di Butembo e del Sud Kivu, a ovest di Bukavu. Si dice che Mai Mai si sia ora alleata con l’esercito congolese per combattere i militanti dell’Isis, ma le loro milizie sono state sconfitte e sono fuggite. A nord di Goma hanno ucciso l’ambasciatore italiano meno di un anno fa, insieme ad altri gruppi armati della regione del Tanganica».
Quanto ancora dovremo affidarci a voci di corridoio e ipotesi suggestive ma senza riscontro? Quanto ancora dovremo scontrarci con muri di gomma? Perché Roma e Bruxelles non compiono un’azione forte per costringere Kinshasa a consentire le indagini del Ros? Panorama è in prima linea nel chiedere la verità per Luca Attanasio. Gli altri che cosa aspettano?
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