Donne e Jihadismo. Il caso di Milano deve farci riflettere (Mattino della Domenica 28.11.2021)

La recente operazione antiterrorismo che ha visto lo scorso 17 novembre l’arresto a Milano della 19enne kosovara-italiana Bleona Tafallari “fervente sostenitrice dell’Isis” definita “furba e manipolatrice” dal procuratore aggiunto antiterrorismo Alberto Nobili, mostra come le reti europee dello Stato islamico non hanno mai perso forza nemmeno durante l’emergenza pandemica. Anzi, si può affermare che la predicazione e il proselitismo – sul web e nei luoghi di preghiera – siano persino aumentati nel corso dell’ultimo biennio. Un fenomeno quello del proselitismo e gli inviti alla jihad che si registra in tutto il Vecchio Continente anche grazie ai terroristi rilasciati: chi per decorrenza dei termini di carcerazione e chi per buona condotta e ai molti “predicatori del male” che girano in lungo e in largo Austria, Francia, Belgio, Spagna, Svezia, Olanda, Italia (che espelle a getto continuo estremisti islamici), Danimarca, Norvegia, Svizzera, e i Balcani. Restano una vera e propria fucina di estremisti e predicatori islamici formatisi all’islam duro e puro dei salafiti-wahhabiti dell’Arabia Saudita che ammorbano da decenni l’Europa con le loro prediche incendiarie e che con i loro petroldollari, hanno contribuito a diffondere ovunque i semi del male. Discorso a parte, meritano le carceri europee, da decenni abbandonate al loro destino, dove si entra spesso come “ladri di polli” e si esce come jihadisti fatti e finiti “dove abbondano i detenuti di religione musulmana che sono ogni giorno esposti al rischio radicalizzazione”.

Il caso Italia

Per quanto riguarda la Penisola italiana, dal report Comprendere la radicalizzazione jihadista. Il caso Italia predisposto nel 2019 dalla European Foundation for Democracy e da Nomos Centro Studi Parlamentari, emerge che su 60’000 detenuti 20’000 sono stranieri; di questi, 13’000 provengono da Paesi musulmani e 8’000 dichiarano di professare la religione islamica. A tal proposito secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia aggiornati al 15 ottobre 2021 che sono riportati in un recente report del COPASIR (Comitato di controllo dei servizi segreti) “si rileva che nell’opera di prevenzione della radicalizzazione in carcere sono sottoposti a monitoraggio 313 detenuti suddivisi in tre livelli di attenzione in base alla pericolosità: 142 sono classificati di livello alto, 89 di livello medio e 82 di livello basso. Tra questi detenuti le nazionalità maggiormente rappresentate sono l’algerina, 27,16%, e la marocchina, 25,88%”.

La vicenda di Bleona Tafallari che davanti al giudice per le indagini preliminari durante il primo interrogatorio, ha provato a minimizzare il proprio ruolo affermando “sono stata ingannata” e di non aver mai fatto alcuna attività di propaganda “né avevo l’intenzione di andare a combattere” e che “inizialmente non facevo parte di nessun gruppo poi nel 2018 mi sono ritrovata nel canale Telegram dove venivano condivisi video e foto di attentati, addestramenti militari, scene di guerriglia, bandiere nere dell’Isis, bambini promessi alla causa del jihad”, riporta al centro del dibattito le donne e l’adesione alla versione più estrema dell’islam.

Un tema questo del quale parla un recentissimo studio di grande valore appena pubblicato dalla European Foundation for Democracy realizzato “con l’obiettivo di offrire un quadro descrittivo ed esplicativo dei percorsi di radicalizzazione delle donne all’interno dell’universo jihadista, sia in termini storici che psico-antropologici”.

Tra le pagine del volume scritto da autorevoli ricercatori e che può essere letto anche da non specialisti (ulteriore nota di merito), si trovano molti dati. Nel luglio 2018, Joana Cook e Gina Vale, dell’International Centre for the Study of Radicalisation and PoliticalViolence del Kings College di Londra, hanno raccolto per la prima volta tutti i dati relativi a coloro che si sono trasferiti nel Siraq provenienti da 80 Paesi. Da questi dati si scopre che le circa 4.700 donne costituiscono il 13 % degli affiliati stranieri all’Isis (poco più di 40’000 persone), escludendo però i cittadini della Siria e dell’Iraq che hanno aderito all’organizzazione localmente. Per quanto riguarda l’Europa, secondo uno studio del 2015 dell’Institute for the Strategic Dialogue di Londra le donne occidentali emigrate nello Stato Islamico sono circa 550 su un totale di 4’000 combattenti. L’International Centre for Counter – Terrorism, nel suo report del 2016, stimava la presenza media femminile al 17 %, con tendenza crescente fino al 20 %, del totale dei foreign fighters europei, oscillante tra 3’922 e 4’294 individui. Per quanto concerne l’Italia: dal 2014 al 2017, 12 donne (di cui sei convertite, sette con sola cittadinanza italiana , e tre con doppio passaporto) su circa 140 individui hanno lasciato il Paese per raggiungere il teatro di guerra. Abbiamo incontrato uno degli autori del report Francesco Bergoglio Errico, ricercatore della European Foundation for Democracy.

Dal vostro studio Donne e Jihad emergono una quantità di dati impressionanti che mostrano come la radicalizzazione e talvolta l’azione violenta non siano più un solo affare per uomini.

Partendo dal presupposto che non esiste un ‹‹processo di radicalizzazione tipo››, analizzando i casi specifici – come si può riscontrare nel rapporto – si possono estrapolare quei fattori che incidono maggiormente nel percorso verso l’ideologia jihadista. A livello generale, nel caso delle donne, possiamo trovare tre fattori o percorsi principali: Può essere il partner o marito che, essendo già connesso ad un network virtuale o fisico, influenza la propria congiunta verso lo jihadismo. Può essere il nucleo famigliare, nel quale si possono trovare uno o più esponenti – ad esempio il fratello, la madre o un cugino– che sono già imperniati di jihadismo. Altro percorso, invece, è quando la donna, in modo autonomo o semi-autonomo, finisce nella rete di un gruppetto di amiche e conoscenti o di un network virtuale, dove trova il germe del jihad e un nuovo senso della vita. Ciò premesso, è utile dire che tali percorsi possono anche coesistere tra di loro.

Può tracciare una tipologia della donna che si avvicina ai circoli dell’Islam riletto nella maniera più estrema e violenta? Chi sono queste donne e cosa vogliono?

Riguardo a chi sono queste donne e cosa vogliono, mi limito a dire che sono delle jihadiste e in quanto tali sono un pericolo per la sicurezza internazionale e delle rispettive nazioni di appartenenza, indipendentemente dal fatto che siano attive a livello di operatività terroristica in senso stretto, anche perché allevare i propri figli secondo una dottrina distorta e violenta – cosa che spesso accade – è azione alquanto inumana e deprecabile.

Quante sono le donne che hanno scelto la jihad a livello globale e quante sono quelle europee?

Non è facile stimare quante sono le donne che rientrano nel cappello del jihadismo. Tuttavia, il rapporto dell’ICSR From DAESH to Diaspora ha tentato di stimare il numero totale mondiale di soggetti legati ad Islamic State. Questo rapporto ci dice che sul totale di 41490 affiliati, il 13% sono donne. Nello specifico, le donne provenienti dall’Europa occidentale sono 1023 (il 17%), mentre quelle provenienti dall’Europa dell’est compresa la Russia sono 1396 (23%). Dati enormemente significativi in quanto dimostrano che l’Europa ha espresso il maggior numero di donne affiliate ad Islamic State. Inoltre, è interessante comparare questo dato con quello dell’area dei Paesi a maggioranza islamica – area MENA (Middle East and North Africa) -, la quale regione ha espresso 1081 donne affiliate (6%). Detto ciò, è chiaro che all’interno dell’Europa il fenomeno Islamic State abbia attecchito considerevolmente il mondo femminile più di quanto al Qaida e altri gruppi abbiano fatto in passato. Per quanto riguarda l’Italia nel rapporto vengono analizzati 18 procedimenti penali concernenti 20 donne imputate per terrorismo jihadista e 20 donne che non sono state imputate ma che hanno avuto legami stretti con gli indagati. Il numero di 40 donne può sembrare di poco spessore; tuttavia, il livello di radicalizzazione raggiunto da molte di esse è cosa alquanto rilevante e, soprattutto, vorrei sottolineare come la nozione di ‹‹donna vittima›› sia fuorviante. Oggi la donna è parte attiva del sistema!

È un fenomeno in crescita? E perché?

Vorrei innanzitutto far presente che la crescita del numero di donne jihadiste anche nelle nostre società occidentali è un fenomeno che nel passato non era così pronunciato per via di questioni dottrinali interne al mondo qaedista e salafita-jihadista più in generale. Se da un lato il mondo qaedista è rimasto un sistema settoriale e altamente pragmatico che vede la donna non come una componente attiva delle cellule terroristiche, dall’altro lato Islamic State ha aperto la porta del jihad anche al mondo femminile tramite l’utilizzo preciso di hadith decontestualizzate e destoricizzate. Tuttavia, ciò non significa che al Qaida non utilizzi le donne. Altresì, ritengo che il maggior numero di donne jihadiste sia un effetto voluto della strategia ‹‹populista›› dell’Islamic State e se vogliamo dell’idea utopica di costituire il Califfato, che è stato sconfitto territorialmente ma non ideologicamente. Tale strategia, tra le altre cose, trae origine dal fatto che le donne sono parte fondante della ‹‹nuova società islamica››,visto la loro intrinseca capacità di generare nuovi soldati, nonché parte della progettazione e della mera esecuzione dell’attività terroristica. Inoltre, tengo a precisare che lo jihadismo non è presente solo in Europa, ma lo si trova anche in India, in Africa centrale e nel Sud Est asiatico, nel quale si sono registrati numerosi attacchi terroristici commessi da interi nuclei famigliari.

E come si combatte?

Infine, sul come si combatte è difficile rispondere. A mio parere, se da un lato lo jihadismo si combatte tramite strumenti repressivi quali le espulsioni e, in particolare, la fattispecie normativa introdotta dall’art.270 bis c.p. che prevede l’anticipazione della soglia dell’intervento penale. Dall’altro questa ideologia violenta la si contrasta tramite attività preventive che si devono basare su delle azioni culturalmente adeguate che abbiano un riflesso multidisciplinare e di ampio respiro, partendo dalle scuole, dalla formazione degli insegnati, fino ad arrivare soprattutto nei luoghi sociali più emarginati.

@Riproduzione riservata

Leave a reply:

Your email address will not be published.

Site Footer